IO NON HO UN SOGNO

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  1. lara.6
     
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    Ok.... ho scritto questo pezzo sta notte e non l'ho nemmeno riletto perciò ogni vostra critica è più che giustificata. In realtà l'ho scritto solo per regalarvi qualcosa da leggere...

    CAPITOLO 1
    Quel pomeriggio mi muovevo come un automa senza che un pensiero, uno solo, mi tenesse occupata almeno un po’. Passavo da una stanza all’altra facendo una breve sosta davanti ad ogni finestra, imprecando perché stavo gettando via il mio unico pomeriggio libero senza fare niente. Avevo lavorato tutta la settimana come una pazza ed ora eccomi qua con tanti propositi in testa e poca voglia di fare. Avrei dovuto portare il cane dal veterinario ma la coda che avrei dovuto fare mi aveva fatto del tutto passare la voglia di andarci, dovevo lavare la macchina ma il sole picchiava troppo forte e sapevo già da ora che avrei sopportato quell’afa solo per dieci minuti esatti, il tempo necessario per lavare il cofano e una fiancata…così mi sarei ritrovata ad andare in giro con mezza macchina pulita e l’altra lercia.
    Di cose da fare, che si erano accumulate da tempo, ne avevo da tenermi occupata un’intero mese senza mai concedermi una sosta. Eppure me ne restavo qua, immobile, davanti alla finestra del soggiorno a contemplare le persone che passeggiavano coi cani, le mamme che si affrettavano ad accompagnare i bambini all’oratorio e le ragazzine che si contendevano i loro compagni di classe. E intanto il tempo passava, senza che io avessi compiuto nulla.
    Esattamente come nella mia vita: sveglia alle sette del mattino, colazione con cereali e latte parzialmente scremato, incazzatura alle otto perché in questa città non manca niente tranne i parcheggi liberi, cartellino in mano, timbratura alle otto e ventisette precise…a volte anche qualche minuto prima… pranzo al bar dell'angolo... palestra... di nuovo il cartellino in mano e di nuovo da capo, un'altra volta, e ancora, ancora... non avevo mai fatto niente di diverso da questo...
    Avevo vissuto in modo ripetitivo per ventisei anni, come se le mie giornate fossero un eterno show, sempre uguale, ma che bisogna pur sempre vedere perché ormai si ha già pagato il biglietto.
    Ero ormai talmente abituata a questa monotonia, a questa paura di cambiare, che mi facevo venire l'angoscia persino quando devo partire per le ferie; una settimana fuori dal solito tram tram, in un posto dove non si conosce nessuno e dove le giornate non sono scandite dai soliti ritmi! Sconvolgente e inquentante.
    Tuttavia mi consolavo dicendo che le abitudini non sono altro che un appiglio al quale aggrapparsi per non cadere nell’incertezza. Infondo, cosa c’è di meglio che avere una vita programmata e regolare che vive al posto tuo? Ci si sente sicuri a seguire certe regole che ormai si conoscono a memoria. Ci si sente inattaccabili.
    E non è sbagliato… è solamente triste.
    Ecco come mi sentivo oggi! Fuori c’era il sole, un sole d’agosto, di quelli che riescono a rendere afoso anche un angioletto all’ombra, eppure mi sembrava di vedere a terra una miriade di pozzanghere…come se non avesse fatto altro che piovere per tutto il giorno.
    Percorrevo con la mente tutta la mia vita…anche le giornate che non avevo ancora vissuto, perché erano talmente programmate che potevo già intuire che cosa avrei fatto da lì a dieci anni: scuola, il primo lavoro, matrimonio, figli e poi…
    Mille cambiamenti scanditi da appuntamenti e giornate sempre simili se non addirittura uguali.
    L’unica cosa che differenziava la mia vita da quella di dieci anni prima era che ora avevo le mestruazioni mentre prima no. Perciò in parole povere la mia vita era peggiorata. Perchè avrei di granlunga preferito restare bambina senza preoccupazioni, senza dovermi confrontare col mondo, senza avere particolari ambizioni. Nemmeno ora ne avevo, ma almeno da piccoli non bisogna vergognarsi per questo.
    Forse quello che più mi mancava era di non avere il classico sogno nel cassetto.
    Neanche il matrimonio mi aveva mai particolarmente attratta. Sarà perché i miei genitori rischiando di divorziare anni fa non mi avevano dato il magistrale buon esempio. Va a sapere…O forse perché l’altro giorno avevo letto su un articolo di giornale che nell’ultimo anno sono incrementati del dieci per cento i divorzi mentre i matrimoni sono scesi al tre per cento. Che poi la domanda sorge spontanea….attraverso quel sondaggio sette coppie su dieci divorziavano, mentre quattro coppie su dieci si sposavano. Quindi, se la matematica non è un’opinione, come diavolo facevano a divorziare sette coppie se solo quattro si erano sposate? Comunque, sta di fatto che quel sondaggio non dava molte speranze ai neo sposini…e forse era proprio per questo che mi sentivo triste, perchè mancava poco a quando avrei dovuto presentarmi all’altare vestita di bianco anche se il mio colore preferito era il rosso, a dire il fatidico “sì”. Esattamente meno di trenta giorni.
    Raccolsi i capelli in uno chignon, infilai la giacca, attaccai un promemoria per mia madre sul frigorifero e infilai le scarpe da tennis. Io adoravo quelle rosse col tacco ma ad Andrew, il mio futuro sposo, non piacevano. Lui ed io stavamo insieme dai tempi del liceo, avevamo rischiato di lasciarci un anno fa, ma poi c'eravamo ripresi fingendo che non fosse accaduto niente, anche perché alle volte è meno spaventoso viversi la minestra scaldata che assaggiarne un’altra. Comunque sia lo amavo. Andrew era il classico ragazzo che faceva per me: posato, equilibrato, sempre puntuale, preciso. Quando mi aveva chiesto di sposarlo mi aveva anche giurato che non mi avrebbe mai fatto mancare niente. Ovviamente si riferiva al lato economico. Ripensando a quelle parole, c'era una cosa che mi aveva sempre fatto mancare: quel briciolo di emozione che si può provare quando si sale al diciottesimo piano di un grattacielo per poi guardare in giù. Per il resto mi aveva davvero dato tutto quello che una donna possa desiderare. A parte il sesso. Andrew era la mia unica esperienza perciò non potevo fare paragoni eppure... se solo non fosse stato così fissato per le candele e tutta la parte di seduzione pre-scopata... io volevo solo un orgasmo. Uno! Non mi interessavano le candele. Comunque questo argomento non potevo sollevarlo a trenta giorni dalle nozze. Più si avvicinava la data tanto attesa, più mi sentivo svuotata, incompleta e sola. Avevo voglia di scappare, di lasciarmi tutto alle spalle, di ricominciare un’altra vita con un’altra me stessa.
    Invece mi infilai in macchina e raggiunsi Andrew dal fotografo per decidere quale album comprare.
    Bisogna avere una buona dose di coraggio per prendere a calci tutto quello che si ha costruito e ricominciare da capo… io quel coraggio cominciai a provarlo quando vidi Andrew attraversare la strada per avvicinarsi a me, mentre lo stavo aspettando davanti alla porta del fotografo. E mi sorpresi perchè il coraggio era una delle tante doti che a me mancavano totalmente…da sempre…come quando avevo dodici anni ed avevo organizzato con le mie compagne di classe di andare a dormire nel mio giardino in tenda. A mezzanotte, l’ora dei fantasmi, avevo preso il mio orsetto e me ne ero risalita in camera mia perché avevo paura che l’uomo nero potesse entrare nella nostra piccola canadese e portarci via. Mi avevano sfottuto per mesi…ma neanche in quell’occasione avevo guadagnato un minimo di coraggio. Meglio le prese per il culo delle mie amiche dell’uomo nero….
    E finalmente, senza preavviso, tutta la risolutezza di cui avevo fatto a meno prima di allora, si era impossessata di me facendomi sentire forte, invincibile e determinata. Mi sembrava quasi di sentir ribollire il sangue nelle mie vene. Le tempie mi pulsavano…ma forse questo era dovuto dal caldo.
    "Ciao amore.", mi salutò venendomi incontro madido di sudore. Il davanti della sua maglietta è fradicia e non è un bello spettacolo.
    "Non posso sposarti.", buttai lì.
    Il colore dei suoi occhi si incupì. Per qualche secondo mi guardò serio, con un’espressione stampata in faccia talmente strana che mi fece venire il sospetto che stesse credendo si trattasse tutto di uno scherzo. In effetti, pensandoci bene, quando qualcuno ti da una brutta notizia, si reagisce sempre chiedendo: “E’ uno scherzo?”….sarà perché il nostro cervello e il nostro cuore hanno bisogno di tempo per metabolizzare il dolore o forse semplicemente perché vogliamo sperare fino all’ultimo di aver capito male. Sarà quel che sarà…ma io nel rischio mi sentii in dovere di aggiungere: "Non si tratta di uno scherzo…è tutto vero. Non voglio più sposarti".
    "E te ne accorgi ad un mese dal matrimonio?", mi attaccò. "Sei matta?".
    Mi stava aggredendo ed io lo lascio fare. Dopo tutto, se tiri un pugno a qualcuno non puoi pretendere che il tuo avversario ti sorrida evitando di pareggiare i conti. Alla famosa parabola che sostiene la causa del porgi l’altra guancia non ci avevo mai creduto.
    "Cerca di capire, Andrew...".
    "Io capisco solo che se sei davvero convinta di quello che hai detto è un casino", mi interruppe. "Ma ti rendi conto? Dovremmo disdire la chiesa, il ristorante, informare tutti gli invitati…e i soldi che ci abbiamo investito? Ci hai pensato a quelli? Dì, ci hai pensato?".
    Già…i soldi! Io gli dico che non lo voglio e lui non pensava altro che ai soldi e alla stabilità economica. Questa cosa da una parte mi sollevò, ma dall’altra mi umiliò profondamente. E’ un po’ come quando si lascia il proprio ragazzo e questo si mette a brindare…insomma, è avvilente. Quando si sta con qualcuno si spera sempre di essere talmente importanti da diventare quasi necessari…e poi va a finire che si scopre che in realtà non si è necessari per nessuno, se non a se stessi.
    "Non posso sposarmi", cercai di spiegarmi. Sentivo le lacrime in gola. "Né con te né con nessun’altro. Non è il mio momento, capisci?"
    "Non è il tuo momento? Ma che cazzo dici?".
    "Sento di non dover chiudere con la mia libertà. Sposandomi sarò costretta a mettere da parte tutti i miei sogni. E non voglio farlo".
    "Ma quali sogni", si scaldò. Una goccia di sudore gli segnò la tempia. "Tu non hai mai avuto un sogno".
    Scrollai le spalle. A quel punto era davvero difficile riuscire a guardarlo negli occhi. "Lo so, hai ragione. In realtà non so qual è il mio sogno…ma tutti ne hanno uno. Devo solo scoprire qual è il mio. Una volta che lo avrò realizzato sarò pronta adividere la mia vita con qualcuno".
    "Ma se fino a ieri dicevi che il tuo sogno era farti una famiglia. Che solo un marito e dei figli potevano far sentire completa una donna", mi ricordò.
    Alcuni passanti si fermarono accanto a noi per sbirciare la vetrina del negozio. Poi si allontanarono.
    "La famiglia non è un sogno…è una realizzazione di sé stessi…un cammino prestabilito", proseguii. "Che esperienze di vita ho io? Dico sempre che vorrei far del bene agli altri, ma cosa ho fatto fin’ora? Al massimo ho dato venti centesimi alla zingara che sta sempre sotto il mio ufficio. Questo non è far del bene. E’ avere pietà. Io voglio di più dalla mia vita. Voglio che qualcuno guardandosi alle spalle possa dire di aver conosciuto qualcuno di così speciale da averlo aiutato. Ma aiutato veramente….non regalandogli venti centesimi. E quel qualcuno voglio essere io".
    Andrew si ritrassee, piegando la testa di lato per osservarmi meglio negli occhi.
    "Non è che ieri sera hai fumato erba, vero?".
    "Andrew...", sbottai.
    "Io non ti capisco. Davvero". Si passò entrambe le mani tra i capelli e cominciò a camminare in tondo davanti a me….come una bestia in gabbia. E in effetti lui era proprio in gabbia. Una prigione senza sbarre né chiavistelli che lui stesso si era costruito su misura. Io ti amo.... ti amo da dieci anni e tu che fai? Come mi ripaghi? Lasciandomi!".
    Mossi la punta della scarpa sulla ghiaia, tracciando un piccolo solco. Davanti a me, le gambe di Andrew continuavano a muoversi avanti e indietro. La tentazione di tornare sui miei passi era forte. Bastava che mi gettassi in ginocchio ai suoi piedi implorando perdono e tutto sarebbe tornato come prima. E quindi tra un mese il matrimonio, una vita con lui, i figli, il lavoro….no! Non sapevo cosa volevo dalla mia vita. Ma sapevo per certo che non era tutto quello che avevo elencato nella mia testa.
    "Stai gettando tutto all’aria, lo sai vero?", cerca di farmi ragionare.
    "Ti sbagli….questo l’ho fatto per ventisei anni…ora voglio “riapparecchiare” la mia vita. Dio ha detto…"
    "Senti Giusy ti prego, non metterti a parlare di Dio adesso…”, mi interruppe furioso, ”sai benissimo che a Lui io non ci ho mai creduto. Sei tu quella fissata con chiese, preghiere e non so che altro".
    "Dio non è una chiesa…non è una preghiera. Ma è ancora troppo presto perché tu lo possa capire".
    "Troppo presto per cosa? Io quello che dovevo capire l’ho compreso. Dio non esiste. Punto. E se tu sei così ingenua da volerti attaccare a certe fantasie, fa pure. Ma non mettermi in mezzo, intesi? E adesso scusami, ma ho una riunione importantissima tra venti minuti".
    Sempre con l’orologio in mano lui. Sembra quasi che un orologio serva a fare il conto alla rovescia per la data della propria morte. Perché è diventato così importante sapere se sono le due del pomeriggio o le otto di sera? Siamo così regolati che abbiamo dato un’ inizio e una fine anche alle cose più naturali. Pranzo a mezzogiorno, cena alle sette. Perché non si può mangiare quando si ha semplicemente fame?
    Alle otto e trenta....ora di timbrare il cartellino…. alle cinque e dieci... ora della pausa caffé… le sette…ora di cena….no, no, no. Non era vivere questo. Tra poco cominceremo a prestabilire anche i tempo necessario per fare l’amore. A patto che alcune coppie non l’abbiano già fatto.
    Io ed Andrew almeno su questo non avevamo problemi. Infatti ci era capitato una sola volta di fare sesso cronometrato: Andrew si era puntato la sveglia del suo cellulare, quella che fa “chicchirichì”, per capire quale era il momento di "venire" o meno. Aveva una delle sue solite riunioni. Così si era privato di un’emozione, di un momento splendido per guadagnare quello che lui sosteneva io guadagnavo in un mese.
    Lo osservai andarsene senza salutarlo... chissà se lo avrei rivisto ancora? Ma la cosa mi lasciava totalmente indifferente. C’eravamo appena lasciati, rivedersi era inutile. Sarebbe stato come non volersi staccare dal passato. Il passato è fatto di ricordi…se non lo si lascia da parte non si potrà mai vivere appieno il proprio futuro.
    Entrai nel negozio e dissi al fotografo che la data del matrimonio era saltata. E lui mi aveva guardata pietosamente pensando probabilmente che fossi stata lasciata dal classico farabutto. Avrei voluto sprofondare o almeno spiegargli come erano andate le cose in realtà. Ma lui non mi porse domande, si limitò a tracciare una riga sulla data del mio matrimonio. E mentre lo fece, mi sembrò di sentire due ali sbucare dalla mia schiena. Finalmente libera.
    Uscendo, l’occhio mi cascò su una foto appesa accanto alla macchina fotocopiatrice. Era un po’ nascosta e aveva gli angoli rovinati, ritraeva un bambino senza una gamba che teneva un pallone tra le mani. Pensai che era un’assurdità; un bambino senza un arto inferiore non poteva correre dietro un pallone né poteva calciarlo. Mi avvicinai alla fotografia e la studiai più attentamente: quel bambino altro non faceva che gridare il suo aiuto e mentre lo faceva, sfoggiava il sorriso più vero che avessi mai visto.
    Se ci pensate siamo tutti un po’ affetti dalla sindrome della commessa. Quanti sorrisi si vedono in una giornata? E quanti se ne fanno? Ma il novantanove per cento di questi sono fasulli o di circostanza. Una cassiera passa la sua giornata a sorridere a persone mai viste…ma non lo fa certo perché è di gran cuore. Lo fa per fingersi gentile e per vendere di più. E noi tutti siamo un po’ simili alle commesse…sorridiamo, sorridiamo…ma a chi regaliamo un sorriso? Il più delle volte a casa nostra, con nostra madre e nostro padre siamo tesi e nervosi poi…zac!...arriva il postino e gli apriamo la porta con il più smagliante dei nostri sorrisi. Forse la nostra vera serenità si cela proprio dietro questo. La maggior parte del nostro tempo non siamo noi stessi….fingiamo e basta. E a lungo andare perdiamo il contatto con la realtà…dimenticando che in fin dei conti, siamo tutte persone uguali con lo stesso identico bisogno di vivere.
    Ecco qual'era il mio sogno: volevo imparare a sorridere!
     
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26 replies since 29/3/2012, 10:34   411 views
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