IO NON HO UN SOGNO

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  1. lara.6
     
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    ancora non lo so se sarà un racconto o qualcos'altro. Mi è venuta la vena di scrivere ed eccomi qua a trascrivere il mio diario... ora vi scrivo un altro pezzo. Lo faccio di getto, pescando nella memoria perciò magari troverete incongruenze.

    CAPITOLO 2

    Una vecchia canzone diceva “partite è un po’ come morire”.
    Per alcuni è esattamente il contrario. Per alcuni restare porta lentamente ad una morte invisibile, impalpabile.
    Io ero morta, anche se non sapevo di esserlo. Stavo percorrendo un cammino a ritroso che mi avrebbe certamente portato all’annullamento del mio io interiore.
    Mi stavo dicendo addio ogni volta che mi accendevo una sigaretta, ogni volta che leggevo il giornale seduta sulla tappetino del bagno, ogni volta che mangiavo le Fonzie…
    in ogni momento stavo dicendo addio alla vita senza essere stata capace di viverla appieno.
    La sensazione di dover partire si stava pian piano trasformando in un’ossessione. Volevo andarmene in un posto qualunque del Mondo, alla ricerca del punto preciso dove c’era la vera Giusy, la vera me, che mi stava aspettando da ventisei anni.
    Volevo smettere di restare ferma nello stesso punto ad osservare scorrere la mia vita… incazzata perché non scorreva nel verso giusto… togliendomi ogni possibilità di migliorarmi e di acquistare saggezza, facendo scomparire la possibilità di esistere come una bolla di sapone.
    Finalmente avevo saggiato l’ebbrezza di un sogno ancora tutto da esplorare, ero riuscita a guardarmi dentro, per la prima volta in vita c’ero riuscita, ma quello che avevo visto non mi era piaciuto per niente.
    Le certezze che ero andata così affannosamente a cercare si erano rivelate delle mezze verità. Le convinzioni che mi avevano spinta a scegliere un preciso cammino mi avevano obbligata a delle responsabilità che pesavano sulla mia vita e su quelle di chi si aspettava da me un continuo miglioramento. Per ventisei anni avevo finto di non avere un mio raziocinio, trasformando chi mi stava accanto in una specie di alter ego che mi rappresentava in tutto e per tutto senza lasciarmi la possibilità di sbagliare.
    Ed ora speravo di poter trovare la serenità tra le maglie e i pantaloni, le foto e i rullini fotografici che stavo cercando di far entrare in valigia… stavo andandomene in punta di piedi, abbandonavo la scena come se mi vergognassi di quello che avevo fatto della mia vita. Ma ormai avevo deciso.
    Avevo scelto come méta l’Africa e per ottenere di andarci avevo scongiurato e stressato il mio capo affinché mi mandasse laggiù a fare un reportage sugli usi e i costumi.
    Era stata la foto di quel bambino che avevo visto dal fotografo a spingermi in quella decisione.
    La possibilità che più avanti, altri bambini simili avrebbero potuto mettere in discussione questa mia decisione non mi sfiorava nemmeno.
    Prima di partire mi dannavo quando bruciacchiavo il sugo al ragù…e ancora non sapevo che c’era chi non sapeva nemmeno che esistessero certi sapori.
    Ero totalmente impreparata al dolore e alle scomodità.
    Chiusi la valigia e con essa un pezzo del mio passato.
    Una parte del mio cuore sarebbe rimasto chiuso nella mia stanza per tutti i mesi che mi sarei trattenuta in Africa e pregai tra le lacrime affinché ogni tanto i miei genitori entrassero nella mia cameretta per salutare quella mia parte d’animo dalla quale avevo esigenza di staccarmi.

    Era la prima volta che salivo su un aereo…non avevo mai visto il mondo scomparire sotto i miei piedi.
    Volare mi aveva dato un senso di euforia proprio perché stavo facendo qualcosa che era al di là della portata dell’uomo. Passare attraverso le nuvole porta a dimenticare le cose terrene e ci avvicina in modo incredibile al sole. Si sentono caldi i suoi raggi battere contro i piccoli oblò.
    Ero partita da Verona, avevo fatto uno scalo a Dakar e poi ero salita su un altro aereo che mi avrebbe portata dritta dritta in Sudan vicino a Khartum, la capitale.
    Qui avrei avuto il mio primo contatto con Jhonny, un fotografo che si appoggiava al mio stesso giornale e che stava in Africa ormai da ben tre anni. Mi avrebbe guidata e fatto da interprete nelle mie spedizioni.
    Venne a prendermi all’aeroporto…lo riconobbi con facilità! Era l’unico ad avere la pelle bianca. I suoi capelli biondi avevano degli strani riflessi ramati a seconda di come si muovevano sotto i raggi ancora caldi del tramonto. Gli occhi erano stupendi, il suo punto forte probabilmente, un po’ arricciati agli angoli come se sorridesse troppo. Ed era altissimo… gli arrivavo appena alle spalle.
    “Viaggio lungo, eh?”, mi accolse stringendomi la mano.
    “Era il mio primo volo”.
    “Cosa ti ha spinta ad arrivare fino all’Africa?”.
    Sorrisi. “Non lo so. Lo scoprirò strada facendo”.
    Mi condusse fuori dall’aeroporto, verso la sua Land Rover ed io rimasi sbalordita nel vedere quante persone cercarono di attorniarmi, parlando una lingua che sembrava uno strano miscuglio di francese, inglese, arabo e castellano.
    Mi spiegò che era swahili, la lingua nazionale.
    Mi sembrava di essere finita in mezzo a tanti vuccumprà, quante erano le persone negre che mi passavano accanto.
    Non ebbi nemmeno il tempo di guardarmi attorno. Jhonny caricò il mio bagaglio e partimmo attraverso le strade asfaltate, verso un centro di raccolta di volontariato.
    Il primo vero contatto che ebbi con l’Africa non era stato un granchè…e, l’unica notte che trascorsi a Khartum, non trovai nemmeno la forza di uscire dalla mia stanza, che altro non era che uno sgabuzzino provvisto di bacinella piena d’acqua e un pagliericcio a terra.
    Mi sarei dovuta trattenere nel continente nero per almeno sei mesi e non c’era fretta nonostante ogni secondo venissi aggredita dalla pazza voglia di scoprire ogni cosa di quel mondo.
    L’indomani mattina mi svegliarono prima dell’alba: cominciava la mia prima spedizione.
    Con l’aiuto di Jhonny, caricai sulla Land Rover tutti i miei attrezzi fotografici, dei pezzi di scorta per l’auto (indispensabili quando le tratte da percorrere superavano le 10 ore di macchina), del mangiare che Mahmid, il nostro autista, aveva comprato il giorno prima al grosso mercato nero e una quantità che a me sembrava eccessiva di cisterne d’acqua.
    Tutto il mio bagaglio consisteva in una valigia nera, riempita per metà di vestiti che ormai non mi andavano più. Li avevo portati per regalarne ai bambini. Non mi ero mai fidata di quelle associazioni che raccoglievano casa per casa vecchi vestiti. Così, decisi di portarli personalmente. Almeno ero certa che sarebbero arrivati.
    Lasciata Khartum alle nostre spalle, feci finalmente il mio ingresso in Africa.
    Il paesaggio era più bello di quanto potessi sperare. Le nubi avevano un colore e uno spessore così diverso che era come se le stessi vedendo per la prima volta. Erano basse, appena sopra la mia testa… sembrava quasi che potessi toccarle limitandomi ad alzare il braccio. Le montagne, che incorniciavano pittorescamente la grande vallata che circondava Khartum, avevano delle sfumature grigie e marroni e si perdevano nell’orizzonte limpido, pianeggiando verso l’apertura di un’altra vallata divisa da un profondissimo canyon. Davanti a noi, nell’assoluto nulla, si stagliò verso il cielo un enorme baobab. La circonferenza del suo tronco era di almeno quindici metri.
    Mi ritrovai a fotografare ogni cosa, anche ciò che fino a due giorni prima consideravo senza importanza. Volevo racchiudere nella mia macchina fotografica tutte le cose che non avrei ritrovato a casa mia. Volevo portare con me un pezzo dell’Africa.
    Dopo qualche ora ci inoltrammo nella savana dove non c’erano piste e attraverso le stoppe dei campi dove era già avvenuto il raccolto di dura. Non incontrammo anima viva ed io ne rimasi molto delusa. Non sapevo ancora cosa stessi cercando, ma qualcosa lo avevo già trovato.
    Nella mia ignoranza, ero convinta che la savana non fosse altro che una foresta pluviale. Ora, mi stavo rendendo conto in fretta di come l’Africa fosse magica e contraddittoria.
    Un’ora prima eravamo immersi nella savana dove padroneggiavano acacie, baobab e ficus, ora il carattere del paesaggio stava mutando. Non si vedevano più campi ma solo immense vallate arse dal sole, qualche cespuglio qua e là e raramente dei giganteschi alberi. Poi in lotananza, quasi volessero nascondersi dietro le cime di alcuni alberi di cui non conoscevo il nome, si vedevano i contorni azzurri e sfumati delle colline. E in tutto questo, c’era una calma che sembrava inghiottirmi. Ne ero quasi angosciata. A casa non avevo un attimo per me, tutta la mia giornata era scandita da orari che non si potevano spostare o ignorare, mentre qua…niente. Le ore non hanno più importanza e le giornate erano scandite solo dal movimento del sole e dalle stagioni. Non ero pronta a questo.
    Mahmid guidò fino ai piedi delle colline e lì arrestò la Land Rover.
    Ormai erano le quattro del pomeriggio e le ombre cominciavano ad allungarsi. Mi spiegò che non era prudente viaggiare di notte in Africa…non tanto per chi avremmo potuto incontrare ma per le difficoltà del tragitto.
    Distesi a terra un lenzuolo bianco, bagnai i miei vestiti per rendere il caldo più sopportabile e, dopo aver bevuto una tazza di tè mi distesi all’ombra di un baobab. Col naso all’insù, vedevo i raggi del sole attraversare i rami secchi. Ero esausta, inzuppata di sudore e ricoperta di polvere, ma terribilmente felice.
    Mi accorsi improvvisamente con commozione che stavo vivendo.
    Jhonny si distese accanto a me, mentre Mahmid restò seduto di guardia in auto imbracciando un fucile.
    “Sono così pericolosi gli indigeni?”, gli chiesi, incupita dal fucile.
    “Non sono gli indigeni dai quali dobbiamo difenderci”, mi rassicurò, “piuttosto dagli animali, soprattutto dai serpenti”.
    “Ci sono molti leoni in questa zona?”.
    Guardava davanti a sé, assolutamente tranquillo. “No, non molti. Preferiscono vivere in gruppo e in questa stagione si spostano verso sud”.
    Avvolsi il mio rullino e lo misi in borsa.
    “Hai fatto molte foto…è un buon segno. Vuol dire che l’Africa ti ha già sedotta”, commentò.
    “Il mio lavoro è una scusante. Mi sono fatta mandare fin qui per altre ragioni. Vorrei aiutare i bambini, portare qua qualcosa di mio…”.
    Lo fissai, ma lui aveva già riportato il suo sgguardo verso l’orizzonte. Ne seguii la traiettoria ma non capii cosa stesse osservando.
    “Guarda Giusy”, disse emozionato, “guarda che colori. Dì, li hai mai visti prima d’ora?”.
    Scossi la testa in segno di diniego. Non riuscivo a parlare di fronte a quel tramonto e a quell’uomo che dopo tre anni in Africa, ancora si emozionava davanti alle infinite tonalità del continente.
    “Ogni giorno vedo colori diversi. E ogni giorno mi commuovo”, parlò piano. “Guarda bene ciò che vedi. Guarda Giusy: questi sono i colori dell’anima”.

    Edited by lara.6 - 9/5/2012, 14:52
     
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