IO NON HO UN SOGNO

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  1. lara.6
     
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    CAPITOLO 3

    Per chi come me era abituato al lusso e alle comodità più moderne non era facile addattarsi in una realtà così arcaica. Inizialmente ne provavo quasi disgusto…la cosa per me più insopportabile era trascorrere interminabili ore sotto il sole e poi non avere la possibilità di immergermi in una vasca traboccante di bagno schiuma. Mi sembrava che tutta la terra di quei campi si fosse infilata sotto le mie unghie -che non erano più così perfette- e tra le mie scarpe. Il caldo torrido, al quale la mia pelle non era abituata, mi aveva provocato uno strano eritema sul petto: piccole bollicine d’acqua mi incorniciavano le spalle e non facevo altro che grattarmi. Il sudore mi imperlava la fronte e mi scivolava negli occhi, facendoli lacrimare…e una voce dentro di me continuava a ripetere: “ma chi me lo ha fatto fare?”
    Ed ero in Africa da appena cinquantatre ore…ci sarei dovuta restare per sei mesi.
    Jhonny dal canto suo ero un ottimo sostegno per me. Abituato da una lunga permanenza in questo posto così primitivo, mi insegnava dei trucchi per rendere più sopportabile il caldo e per come patire meno la sete. Con la schiena retta e lo sguardo orgoglioso fisso davanti a sé mi dava una sicurezza incredibile, mi insegnava a distinguere il sesso degli uccelli che ci accompagnavano in quell’interminabile viaggio iniziato trentasei ore prima, mi raccontava dei popoli che abitavano fieri tra le colline che oramai distavano poche ore da noi, mi elencava i nomi delle piante che incrociavamo lungo il percorso, mi cantava le canzoni del posto traducendole direttamente in italiano… ma si guardava bene dal parlarmi della sua vita. Curiosa com’ero sempre stata cercavo di indagare, ma ogni volta che lo facevo lui mi zittiva dicendo: “le parole non sono niente, volano nell’aria e spariscono. Quello che invece guardi, entra nei tuoi occhi per rimanerci per sempre”. Allora io mi tappavo la bocca e guardavo attorno a me, senza nemmeno sapere cosa cercare ma trovando tuttavia qualcosa che valesse la pena di guardare.
    Ci fermammo accanto ad una “water hole”, ovvero una piccola pozzanghera d’acqua nel puro nulla dove si erano dati appuntamento alcuni springbok (l’equivalente del nostro bambi) e un paio di piccoli facoceri. Lì feci il mio primo incontro con una giraffa. Inizialmente ne fui spaventata a morte…stava a meno di una decina di metri da noi e ci guardava dai suoi sei metri d’altezza mentre ondeggiava sinuosa nella sua calma.
    Le feci un sacco di foto e tremai quando quell’incosciente di Jhonny si avvicinò alle alte zampe dell’animale per regalarmi una fotografia da copertina. La giraffa non è assolutamente una bestia pericolosa….ma ha pur sempre un istinto animale: imprevedibile e difensivo. Comunque, per lo più, è un animale vanitoso che adora farsi fotografare e molto, TROPPO curioso.
    Feci un altro determinante incontro lì, sulle rive per così dire di quel laghetto…all’orizzonte, ai piedi di una gigantesca welwitschia intravidi una figura immobile che ci osservava con degli immensi occhi bianchi.
    “Ehi Jhonny… guarda laggiù”.
    Anche Jhonny si era accorto che non eravamo più soli e alzò lo sguardo nella direzione che gli stavo indicando, restando per qualche secondo a studiare quella figura snella d’uomo che portava in se qualcosa di incomprensibile e arcano. Quando poi alzò il braccio in segno di saluto, quel ragazzo cominciò ad incamminarsi verso di noi. Aveva un’andatura fiera e decisa che mi ricordava quella dei gladiatori. Solo quando si trovò a pochi passi da me riuscii a fare luce su di lui e accorgermi che altro non era che un mio connazionale.
    “Salve”, ci salutò, togliendosi il cappello a visiera, “siete sulla strada giusta”.
    Come faceva quell’uomo a sapere dove fossimo diretti?
    Lo osservai con discrezione mentre con movimenti esperti indicava a Jhonny la direzione che avremmo dovuto percorrere per arrivare prima alle colline. Gli consigliava il percorso meno battuto, gli rammentava di fare attenzione alle provviste e di tenere accesa la radio perché in quei giorni erano stati avvistati dei leopardi. In tutto questo, per ogni istante, tenne gli occhi puntati verso i miei.
    “E tu chi sei?”, mi chiese, venendomi accanto. Jhonny si era allontanato per tirare le cinghie alla Jeep.
    “Giusy. Sono qui in Africa per un reportage sugli usi e i costumi delle tribù”.
    Mi strinse la mano. Le sue dita erano ruvide, ricoperte di tagli e piaghe.
    “Io sono Riccardo! Ad un giorno di cammino troverai quello che stai cercando”. Posizionò una mano sopra gli occhi per proteggersi dal sole e con l’altra indicò davanti a sé, verso una specie di conca tra le colline. “Vedi laggiù? Ancora non si vede ma al calare della sera, se sei fortunata, potrai scorgere del fumo nero alzarsi dal punto più in alto”.
    “Un fumo nero?”, chiesi.
    “Il fumo dei falò”.
    “Quindi laggiù c’è una tribù?”.
    Un mezzo sorriso scoprì la linea bianca dei suoi denti. “Al momento sì…. prepara la tua macchina fotografica
    “Cosa sai di quella tribù? “indago”
    Lui scoppiò a ridere gettando la testa all’indietro.
    “Perché ridi?”.
    “Zitta!”.
    Mi fece cenno di tacere col dito e chiuse gli occhi, sorridendo. Senza sapere a che scopo lo imitai e nell’immediatezza non riuscii proprio a capire cosa stesse ascoltando con tanto trasporto. Solo dopo una manciata di secondi sentii raggiungermi il suono lontano e ritmico di un tamburo, accompagnato da voci maschili che cantavano in una lingua a me sconosciuta. Restai in estasi per non so quanto tempo, assaporando quel suono come fosse una cosa buona da mangiare.
    “Avresti dovuto chiedermi cosa non so di quella tribù!”, riprese Riccardo. “Ho vissuto con loro per due anni”.
    “Quindi sai tutto di loro?”.
    “So cosa mangiano, so come si vestono, ho imparato a memoria le loro canzoni e i loro balli. Ma loro non sono questo…sono molto di più. Ed io sto facendo un cammino per scoprire veramente con chi ho vissuto questi ultimi due anni”.
    “Un cammino?”. Non ero molto certa di aver capito bene, speravo solo che non cominciasse a parlarmi come un prete che sta percorrendo la sua strada per arrivare alla fede.
    “Nahh…. Sei in Africa da troppo poco tempo per capire. Goditi il panorama e quelle cosette lì”.
    “Ehi”, mi indignai. “Non sono una ragazzetta stupida…”.
    Sollevò un sopracciglio. “Mai detta una cosa simile”.
    “Se proprio vuoi saperlo ho messo in valigia molte delle mie cose per poter far volontariato e…”.
    “Buttale!”, mi interruppe.
    “Sei matto?”. Sgranai gli occhi, presa in contropiede. “Ho con me colori per i bambini, vestiti, quaderni…”.
    “Loro non vogliono queste cose… non sanno che farsene e…”, mi strizzò un occhio, “… in quanto agli abiti, forse è bene che te lo dica: loro non li usano e criticano chi lo fa”.
    Raccolse da terra il suo cappello e fece un cenno di saluto a Jhonny.
    Mentre lo osservavo, desiderai approfondire il discorso e convincerlo a vedermi per com’ero veramente e non per come apparivo.
    “Perché non ti fermi a pranzo con noi?”, lo invitai.
    Si voltò ad osservarmi, corrugando la fronte. “Perché?”.
    Restai spiazzata. “Volevo solo essere gentile”.
    “Lo volevi essere con me o con te stessa?”.
    Alzai lo sguardo su di lui, pronta a ribattere, ma lui già se ne stava andando. Mio malgrado stavo imparando che chi viveva in Africa considerava puerili le parole… qua la sfacciataggine altro non era che franchezza. Sia Riccardo che Jhonny non amavano parlare ma preferivano ascoltare i linguaggi della savana, delle foreste e di chi vi abita. L’uomo, in questo paradiso terrestre, passava in un secondo piano, lasciando il posto agli animali, al vento, al sole e a tutto quello che l’Africa può regalare.
    Tutto quello che fino ad ora avevo imparato sui banchi di scuola e che mi avevano tramandato i miei genitori, tutte le informazioni trasmesse in tv, fatte pervenire dai telegiornali non mi aiutavano ad affrontare la prova più importante della mia vita: per la prima volta, stavo vivendo con le cose e per tutte le cose che Dio aveva pensato ci potessero bastare. E non ero preparata. Ero abituata a vivere con le cose inventate e costruite dall’uomo, avevo annusato mille profumi di Christian Dior, di Dolce e Gabbana e mi ero scordata di odorare il profumo di erba umida.
    Qua vigevano leggi completamente diverse dalle nostre. Per qualcuno potevano essere più insulse, per altri come me potevano sembrare indispensabili. Non mi permettevo di giudicarle…perché non erano né giuste né sbagliate. Erano semplicemente le leggi dell’Africa.
    E Riccardo sembrava conoscerle molto bene.
    Strizzai gli occhi verso la sua sagoma ormai lontana; avevo l’impressione che ci saremmo rivisti molto presto. Purtroppo!
     
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