IO NON HO UN SOGNO

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  1. lara.6
     
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    Ok.... ho scritto questo pezzo sta notte e non l'ho nemmeno riletto perciò ogni vostra critica è più che giustificata. In realtà l'ho scritto solo per regalarvi qualcosa da leggere...

    CAPITOLO 1
    Quel pomeriggio mi muovevo come un automa senza che un pensiero, uno solo, mi tenesse occupata almeno un po’. Passavo da una stanza all’altra facendo una breve sosta davanti ad ogni finestra, imprecando perché stavo gettando via il mio unico pomeriggio libero senza fare niente. Avevo lavorato tutta la settimana come una pazza ed ora eccomi qua con tanti propositi in testa e poca voglia di fare. Avrei dovuto portare il cane dal veterinario ma la coda che avrei dovuto fare mi aveva fatto del tutto passare la voglia di andarci, dovevo lavare la macchina ma il sole picchiava troppo forte e sapevo già da ora che avrei sopportato quell’afa solo per dieci minuti esatti, il tempo necessario per lavare il cofano e una fiancata…così mi sarei ritrovata ad andare in giro con mezza macchina pulita e l’altra lercia.
    Di cose da fare, che si erano accumulate da tempo, ne avevo da tenermi occupata un’intero mese senza mai concedermi una sosta. Eppure me ne restavo qua, immobile, davanti alla finestra del soggiorno a contemplare le persone che passeggiavano coi cani, le mamme che si affrettavano ad accompagnare i bambini all’oratorio e le ragazzine che si contendevano i loro compagni di classe. E intanto il tempo passava, senza che io avessi compiuto nulla.
    Esattamente come nella mia vita: sveglia alle sette del mattino, colazione con cereali e latte parzialmente scremato, incazzatura alle otto perché in questa città non manca niente tranne i parcheggi liberi, cartellino in mano, timbratura alle otto e ventisette precise…a volte anche qualche minuto prima… pranzo al bar dell'angolo... palestra... di nuovo il cartellino in mano e di nuovo da capo, un'altra volta, e ancora, ancora... non avevo mai fatto niente di diverso da questo...
    Avevo vissuto in modo ripetitivo per ventisei anni, come se le mie giornate fossero un eterno show, sempre uguale, ma che bisogna pur sempre vedere perché ormai si ha già pagato il biglietto.
    Ero ormai talmente abituata a questa monotonia, a questa paura di cambiare, che mi facevo venire l'angoscia persino quando devo partire per le ferie; una settimana fuori dal solito tram tram, in un posto dove non si conosce nessuno e dove le giornate non sono scandite dai soliti ritmi! Sconvolgente e inquentante.
    Tuttavia mi consolavo dicendo che le abitudini non sono altro che un appiglio al quale aggrapparsi per non cadere nell’incertezza. Infondo, cosa c’è di meglio che avere una vita programmata e regolare che vive al posto tuo? Ci si sente sicuri a seguire certe regole che ormai si conoscono a memoria. Ci si sente inattaccabili.
    E non è sbagliato… è solamente triste.
    Ecco come mi sentivo oggi! Fuori c’era il sole, un sole d’agosto, di quelli che riescono a rendere afoso anche un angioletto all’ombra, eppure mi sembrava di vedere a terra una miriade di pozzanghere…come se non avesse fatto altro che piovere per tutto il giorno.
    Percorrevo con la mente tutta la mia vita…anche le giornate che non avevo ancora vissuto, perché erano talmente programmate che potevo già intuire che cosa avrei fatto da lì a dieci anni: scuola, il primo lavoro, matrimonio, figli e poi…
    Mille cambiamenti scanditi da appuntamenti e giornate sempre simili se non addirittura uguali.
    L’unica cosa che differenziava la mia vita da quella di dieci anni prima era che ora avevo le mestruazioni mentre prima no. Perciò in parole povere la mia vita era peggiorata. Perchè avrei di granlunga preferito restare bambina senza preoccupazioni, senza dovermi confrontare col mondo, senza avere particolari ambizioni. Nemmeno ora ne avevo, ma almeno da piccoli non bisogna vergognarsi per questo.
    Forse quello che più mi mancava era di non avere il classico sogno nel cassetto.
    Neanche il matrimonio mi aveva mai particolarmente attratta. Sarà perché i miei genitori rischiando di divorziare anni fa non mi avevano dato il magistrale buon esempio. Va a sapere…O forse perché l’altro giorno avevo letto su un articolo di giornale che nell’ultimo anno sono incrementati del dieci per cento i divorzi mentre i matrimoni sono scesi al tre per cento. Che poi la domanda sorge spontanea….attraverso quel sondaggio sette coppie su dieci divorziavano, mentre quattro coppie su dieci si sposavano. Quindi, se la matematica non è un’opinione, come diavolo facevano a divorziare sette coppie se solo quattro si erano sposate? Comunque, sta di fatto che quel sondaggio non dava molte speranze ai neo sposini…e forse era proprio per questo che mi sentivo triste, perchè mancava poco a quando avrei dovuto presentarmi all’altare vestita di bianco anche se il mio colore preferito era il rosso, a dire il fatidico “sì”. Esattamente meno di trenta giorni.
    Raccolsi i capelli in uno chignon, infilai la giacca, attaccai un promemoria per mia madre sul frigorifero e infilai le scarpe da tennis. Io adoravo quelle rosse col tacco ma ad Andrew, il mio futuro sposo, non piacevano. Lui ed io stavamo insieme dai tempi del liceo, avevamo rischiato di lasciarci un anno fa, ma poi c'eravamo ripresi fingendo che non fosse accaduto niente, anche perché alle volte è meno spaventoso viversi la minestra scaldata che assaggiarne un’altra. Comunque sia lo amavo. Andrew era il classico ragazzo che faceva per me: posato, equilibrato, sempre puntuale, preciso. Quando mi aveva chiesto di sposarlo mi aveva anche giurato che non mi avrebbe mai fatto mancare niente. Ovviamente si riferiva al lato economico. Ripensando a quelle parole, c'era una cosa che mi aveva sempre fatto mancare: quel briciolo di emozione che si può provare quando si sale al diciottesimo piano di un grattacielo per poi guardare in giù. Per il resto mi aveva davvero dato tutto quello che una donna possa desiderare. A parte il sesso. Andrew era la mia unica esperienza perciò non potevo fare paragoni eppure... se solo non fosse stato così fissato per le candele e tutta la parte di seduzione pre-scopata... io volevo solo un orgasmo. Uno! Non mi interessavano le candele. Comunque questo argomento non potevo sollevarlo a trenta giorni dalle nozze. Più si avvicinava la data tanto attesa, più mi sentivo svuotata, incompleta e sola. Avevo voglia di scappare, di lasciarmi tutto alle spalle, di ricominciare un’altra vita con un’altra me stessa.
    Invece mi infilai in macchina e raggiunsi Andrew dal fotografo per decidere quale album comprare.
    Bisogna avere una buona dose di coraggio per prendere a calci tutto quello che si ha costruito e ricominciare da capo… io quel coraggio cominciai a provarlo quando vidi Andrew attraversare la strada per avvicinarsi a me, mentre lo stavo aspettando davanti alla porta del fotografo. E mi sorpresi perchè il coraggio era una delle tante doti che a me mancavano totalmente…da sempre…come quando avevo dodici anni ed avevo organizzato con le mie compagne di classe di andare a dormire nel mio giardino in tenda. A mezzanotte, l’ora dei fantasmi, avevo preso il mio orsetto e me ne ero risalita in camera mia perché avevo paura che l’uomo nero potesse entrare nella nostra piccola canadese e portarci via. Mi avevano sfottuto per mesi…ma neanche in quell’occasione avevo guadagnato un minimo di coraggio. Meglio le prese per il culo delle mie amiche dell’uomo nero….
    E finalmente, senza preavviso, tutta la risolutezza di cui avevo fatto a meno prima di allora, si era impossessata di me facendomi sentire forte, invincibile e determinata. Mi sembrava quasi di sentir ribollire il sangue nelle mie vene. Le tempie mi pulsavano…ma forse questo era dovuto dal caldo.
    "Ciao amore.", mi salutò venendomi incontro madido di sudore. Il davanti della sua maglietta è fradicia e non è un bello spettacolo.
    "Non posso sposarti.", buttai lì.
    Il colore dei suoi occhi si incupì. Per qualche secondo mi guardò serio, con un’espressione stampata in faccia talmente strana che mi fece venire il sospetto che stesse credendo si trattasse tutto di uno scherzo. In effetti, pensandoci bene, quando qualcuno ti da una brutta notizia, si reagisce sempre chiedendo: “E’ uno scherzo?”….sarà perché il nostro cervello e il nostro cuore hanno bisogno di tempo per metabolizzare il dolore o forse semplicemente perché vogliamo sperare fino all’ultimo di aver capito male. Sarà quel che sarà…ma io nel rischio mi sentii in dovere di aggiungere: "Non si tratta di uno scherzo…è tutto vero. Non voglio più sposarti".
    "E te ne accorgi ad un mese dal matrimonio?", mi attaccò. "Sei matta?".
    Mi stava aggredendo ed io lo lascio fare. Dopo tutto, se tiri un pugno a qualcuno non puoi pretendere che il tuo avversario ti sorrida evitando di pareggiare i conti. Alla famosa parabola che sostiene la causa del porgi l’altra guancia non ci avevo mai creduto.
    "Cerca di capire, Andrew...".
    "Io capisco solo che se sei davvero convinta di quello che hai detto è un casino", mi interruppe. "Ma ti rendi conto? Dovremmo disdire la chiesa, il ristorante, informare tutti gli invitati…e i soldi che ci abbiamo investito? Ci hai pensato a quelli? Dì, ci hai pensato?".
    Già…i soldi! Io gli dico che non lo voglio e lui non pensava altro che ai soldi e alla stabilità economica. Questa cosa da una parte mi sollevò, ma dall’altra mi umiliò profondamente. E’ un po’ come quando si lascia il proprio ragazzo e questo si mette a brindare…insomma, è avvilente. Quando si sta con qualcuno si spera sempre di essere talmente importanti da diventare quasi necessari…e poi va a finire che si scopre che in realtà non si è necessari per nessuno, se non a se stessi.
    "Non posso sposarmi", cercai di spiegarmi. Sentivo le lacrime in gola. "Né con te né con nessun’altro. Non è il mio momento, capisci?"
    "Non è il tuo momento? Ma che cazzo dici?".
    "Sento di non dover chiudere con la mia libertà. Sposandomi sarò costretta a mettere da parte tutti i miei sogni. E non voglio farlo".
    "Ma quali sogni", si scaldò. Una goccia di sudore gli segnò la tempia. "Tu non hai mai avuto un sogno".
    Scrollai le spalle. A quel punto era davvero difficile riuscire a guardarlo negli occhi. "Lo so, hai ragione. In realtà non so qual è il mio sogno…ma tutti ne hanno uno. Devo solo scoprire qual è il mio. Una volta che lo avrò realizzato sarò pronta adividere la mia vita con qualcuno".
    "Ma se fino a ieri dicevi che il tuo sogno era farti una famiglia. Che solo un marito e dei figli potevano far sentire completa una donna", mi ricordò.
    Alcuni passanti si fermarono accanto a noi per sbirciare la vetrina del negozio. Poi si allontanarono.
    "La famiglia non è un sogno…è una realizzazione di sé stessi…un cammino prestabilito", proseguii. "Che esperienze di vita ho io? Dico sempre che vorrei far del bene agli altri, ma cosa ho fatto fin’ora? Al massimo ho dato venti centesimi alla zingara che sta sempre sotto il mio ufficio. Questo non è far del bene. E’ avere pietà. Io voglio di più dalla mia vita. Voglio che qualcuno guardandosi alle spalle possa dire di aver conosciuto qualcuno di così speciale da averlo aiutato. Ma aiutato veramente….non regalandogli venti centesimi. E quel qualcuno voglio essere io".
    Andrew si ritrassee, piegando la testa di lato per osservarmi meglio negli occhi.
    "Non è che ieri sera hai fumato erba, vero?".
    "Andrew...", sbottai.
    "Io non ti capisco. Davvero". Si passò entrambe le mani tra i capelli e cominciò a camminare in tondo davanti a me….come una bestia in gabbia. E in effetti lui era proprio in gabbia. Una prigione senza sbarre né chiavistelli che lui stesso si era costruito su misura. Io ti amo.... ti amo da dieci anni e tu che fai? Come mi ripaghi? Lasciandomi!".
    Mossi la punta della scarpa sulla ghiaia, tracciando un piccolo solco. Davanti a me, le gambe di Andrew continuavano a muoversi avanti e indietro. La tentazione di tornare sui miei passi era forte. Bastava che mi gettassi in ginocchio ai suoi piedi implorando perdono e tutto sarebbe tornato come prima. E quindi tra un mese il matrimonio, una vita con lui, i figli, il lavoro….no! Non sapevo cosa volevo dalla mia vita. Ma sapevo per certo che non era tutto quello che avevo elencato nella mia testa.
    "Stai gettando tutto all’aria, lo sai vero?", cerca di farmi ragionare.
    "Ti sbagli….questo l’ho fatto per ventisei anni…ora voglio “riapparecchiare” la mia vita. Dio ha detto…"
    "Senti Giusy ti prego, non metterti a parlare di Dio adesso…”, mi interruppe furioso, ”sai benissimo che a Lui io non ci ho mai creduto. Sei tu quella fissata con chiese, preghiere e non so che altro".
    "Dio non è una chiesa…non è una preghiera. Ma è ancora troppo presto perché tu lo possa capire".
    "Troppo presto per cosa? Io quello che dovevo capire l’ho compreso. Dio non esiste. Punto. E se tu sei così ingenua da volerti attaccare a certe fantasie, fa pure. Ma non mettermi in mezzo, intesi? E adesso scusami, ma ho una riunione importantissima tra venti minuti".
    Sempre con l’orologio in mano lui. Sembra quasi che un orologio serva a fare il conto alla rovescia per la data della propria morte. Perché è diventato così importante sapere se sono le due del pomeriggio o le otto di sera? Siamo così regolati che abbiamo dato un’ inizio e una fine anche alle cose più naturali. Pranzo a mezzogiorno, cena alle sette. Perché non si può mangiare quando si ha semplicemente fame?
    Alle otto e trenta....ora di timbrare il cartellino…. alle cinque e dieci... ora della pausa caffé… le sette…ora di cena….no, no, no. Non era vivere questo. Tra poco cominceremo a prestabilire anche i tempo necessario per fare l’amore. A patto che alcune coppie non l’abbiano già fatto.
    Io ed Andrew almeno su questo non avevamo problemi. Infatti ci era capitato una sola volta di fare sesso cronometrato: Andrew si era puntato la sveglia del suo cellulare, quella che fa “chicchirichì”, per capire quale era il momento di "venire" o meno. Aveva una delle sue solite riunioni. Così si era privato di un’emozione, di un momento splendido per guadagnare quello che lui sosteneva io guadagnavo in un mese.
    Lo osservai andarsene senza salutarlo... chissà se lo avrei rivisto ancora? Ma la cosa mi lasciava totalmente indifferente. C’eravamo appena lasciati, rivedersi era inutile. Sarebbe stato come non volersi staccare dal passato. Il passato è fatto di ricordi…se non lo si lascia da parte non si potrà mai vivere appieno il proprio futuro.
    Entrai nel negozio e dissi al fotografo che la data del matrimonio era saltata. E lui mi aveva guardata pietosamente pensando probabilmente che fossi stata lasciata dal classico farabutto. Avrei voluto sprofondare o almeno spiegargli come erano andate le cose in realtà. Ma lui non mi porse domande, si limitò a tracciare una riga sulla data del mio matrimonio. E mentre lo fece, mi sembrò di sentire due ali sbucare dalla mia schiena. Finalmente libera.
    Uscendo, l’occhio mi cascò su una foto appesa accanto alla macchina fotocopiatrice. Era un po’ nascosta e aveva gli angoli rovinati, ritraeva un bambino senza una gamba che teneva un pallone tra le mani. Pensai che era un’assurdità; un bambino senza un arto inferiore non poteva correre dietro un pallone né poteva calciarlo. Mi avvicinai alla fotografia e la studiai più attentamente: quel bambino altro non faceva che gridare il suo aiuto e mentre lo faceva, sfoggiava il sorriso più vero che avessi mai visto.
    Se ci pensate siamo tutti un po’ affetti dalla sindrome della commessa. Quanti sorrisi si vedono in una giornata? E quanti se ne fanno? Ma il novantanove per cento di questi sono fasulli o di circostanza. Una cassiera passa la sua giornata a sorridere a persone mai viste…ma non lo fa certo perché è di gran cuore. Lo fa per fingersi gentile e per vendere di più. E noi tutti siamo un po’ simili alle commesse…sorridiamo, sorridiamo…ma a chi regaliamo un sorriso? Il più delle volte a casa nostra, con nostra madre e nostro padre siamo tesi e nervosi poi…zac!...arriva il postino e gli apriamo la porta con il più smagliante dei nostri sorrisi. Forse la nostra vera serenità si cela proprio dietro questo. La maggior parte del nostro tempo non siamo noi stessi….fingiamo e basta. E a lungo andare perdiamo il contatto con la realtà…dimenticando che in fin dei conti, siamo tutte persone uguali con lo stesso identico bisogno di vivere.
    Ecco qual'era il mio sogno: volevo imparare a sorridere!
     
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  2. ari-unna
     
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    Mi piace! :)
    Ma è un racconto?
     
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  3. antonella125
     
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    Bravaaaaaaaa!!!!!!!!! :bravo:
    Mi sono venuti i brividi qnd hai parlato del "sorriso"!
    Anch'io in molte circostanze qnd mi sorridono o mi danno una pacca sulla spalla (anche persone a me vicine) mi chiedo se lo facciano per circostanza, o perchè vogliono manifestarmi "sinceramente" il loro appoggio, nonchè, affetto!
    Purtroppo, però, non lo sapremo mai.. :( Quindi a volte mi dico che in situazioni particolari... meglio prendersi quello di facciata e non scavare a fondo per non avere ulteriori delusioni!!! Se scavi, poi, con persone "carissime" rischi di uscirne con le ossa rotte e vi assicuro che non passi un bel quarto d'ora!
    Però "purtroppo" anche se me lo dico non ci sono mai riuscita e di ossa me ne sono rotte un bel pò! :_sto male_:
    Ma pazienza... la cosa buona è uscirne più forti di prima! :muahahaha:
     
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  4. lara.6
     
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    ancora non lo so se sarà un racconto o qualcos'altro. Mi è venuta la vena di scrivere ed eccomi qua a trascrivere il mio diario... ora vi scrivo un altro pezzo. Lo faccio di getto, pescando nella memoria perciò magari troverete incongruenze.

    CAPITOLO 2

    Una vecchia canzone diceva “partite è un po’ come morire”.
    Per alcuni è esattamente il contrario. Per alcuni restare porta lentamente ad una morte invisibile, impalpabile.
    Io ero morta, anche se non sapevo di esserlo. Stavo percorrendo un cammino a ritroso che mi avrebbe certamente portato all’annullamento del mio io interiore.
    Mi stavo dicendo addio ogni volta che mi accendevo una sigaretta, ogni volta che leggevo il giornale seduta sulla tappetino del bagno, ogni volta che mangiavo le Fonzie…
    in ogni momento stavo dicendo addio alla vita senza essere stata capace di viverla appieno.
    La sensazione di dover partire si stava pian piano trasformando in un’ossessione. Volevo andarmene in un posto qualunque del Mondo, alla ricerca del punto preciso dove c’era la vera Giusy, la vera me, che mi stava aspettando da ventisei anni.
    Volevo smettere di restare ferma nello stesso punto ad osservare scorrere la mia vita… incazzata perché non scorreva nel verso giusto… togliendomi ogni possibilità di migliorarmi e di acquistare saggezza, facendo scomparire la possibilità di esistere come una bolla di sapone.
    Finalmente avevo saggiato l’ebbrezza di un sogno ancora tutto da esplorare, ero riuscita a guardarmi dentro, per la prima volta in vita c’ero riuscita, ma quello che avevo visto non mi era piaciuto per niente.
    Le certezze che ero andata così affannosamente a cercare si erano rivelate delle mezze verità. Le convinzioni che mi avevano spinta a scegliere un preciso cammino mi avevano obbligata a delle responsabilità che pesavano sulla mia vita e su quelle di chi si aspettava da me un continuo miglioramento. Per ventisei anni avevo finto di non avere un mio raziocinio, trasformando chi mi stava accanto in una specie di alter ego che mi rappresentava in tutto e per tutto senza lasciarmi la possibilità di sbagliare.
    Ed ora speravo di poter trovare la serenità tra le maglie e i pantaloni, le foto e i rullini fotografici che stavo cercando di far entrare in valigia… stavo andandomene in punta di piedi, abbandonavo la scena come se mi vergognassi di quello che avevo fatto della mia vita. Ma ormai avevo deciso.
    Avevo scelto come méta l’Africa e per ottenere di andarci avevo scongiurato e stressato il mio capo affinché mi mandasse laggiù a fare un reportage sugli usi e i costumi.
    Era stata la foto di quel bambino che avevo visto dal fotografo a spingermi in quella decisione.
    La possibilità che più avanti, altri bambini simili avrebbero potuto mettere in discussione questa mia decisione non mi sfiorava nemmeno.
    Prima di partire mi dannavo quando bruciacchiavo il sugo al ragù…e ancora non sapevo che c’era chi non sapeva nemmeno che esistessero certi sapori.
    Ero totalmente impreparata al dolore e alle scomodità.
    Chiusi la valigia e con essa un pezzo del mio passato.
    Una parte del mio cuore sarebbe rimasto chiuso nella mia stanza per tutti i mesi che mi sarei trattenuta in Africa e pregai tra le lacrime affinché ogni tanto i miei genitori entrassero nella mia cameretta per salutare quella mia parte d’animo dalla quale avevo esigenza di staccarmi.

    Era la prima volta che salivo su un aereo…non avevo mai visto il mondo scomparire sotto i miei piedi.
    Volare mi aveva dato un senso di euforia proprio perché stavo facendo qualcosa che era al di là della portata dell’uomo. Passare attraverso le nuvole porta a dimenticare le cose terrene e ci avvicina in modo incredibile al sole. Si sentono caldi i suoi raggi battere contro i piccoli oblò.
    Ero partita da Verona, avevo fatto uno scalo a Dakar e poi ero salita su un altro aereo che mi avrebbe portata dritta dritta in Sudan vicino a Khartum, la capitale.
    Qui avrei avuto il mio primo contatto con Jhonny, un fotografo che si appoggiava al mio stesso giornale e che stava in Africa ormai da ben tre anni. Mi avrebbe guidata e fatto da interprete nelle mie spedizioni.
    Venne a prendermi all’aeroporto…lo riconobbi con facilità! Era l’unico ad avere la pelle bianca. I suoi capelli biondi avevano degli strani riflessi ramati a seconda di come si muovevano sotto i raggi ancora caldi del tramonto. Gli occhi erano stupendi, il suo punto forte probabilmente, un po’ arricciati agli angoli come se sorridesse troppo. Ed era altissimo… gli arrivavo appena alle spalle.
    “Viaggio lungo, eh?”, mi accolse stringendomi la mano.
    “Era il mio primo volo”.
    “Cosa ti ha spinta ad arrivare fino all’Africa?”.
    Sorrisi. “Non lo so. Lo scoprirò strada facendo”.
    Mi condusse fuori dall’aeroporto, verso la sua Land Rover ed io rimasi sbalordita nel vedere quante persone cercarono di attorniarmi, parlando una lingua che sembrava uno strano miscuglio di francese, inglese, arabo e castellano.
    Mi spiegò che era swahili, la lingua nazionale.
    Mi sembrava di essere finita in mezzo a tanti vuccumprà, quante erano le persone negre che mi passavano accanto.
    Non ebbi nemmeno il tempo di guardarmi attorno. Jhonny caricò il mio bagaglio e partimmo attraverso le strade asfaltate, verso un centro di raccolta di volontariato.
    Il primo vero contatto che ebbi con l’Africa non era stato un granchè…e, l’unica notte che trascorsi a Khartum, non trovai nemmeno la forza di uscire dalla mia stanza, che altro non era che uno sgabuzzino provvisto di bacinella piena d’acqua e un pagliericcio a terra.
    Mi sarei dovuta trattenere nel continente nero per almeno sei mesi e non c’era fretta nonostante ogni secondo venissi aggredita dalla pazza voglia di scoprire ogni cosa di quel mondo.
    L’indomani mattina mi svegliarono prima dell’alba: cominciava la mia prima spedizione.
    Con l’aiuto di Jhonny, caricai sulla Land Rover tutti i miei attrezzi fotografici, dei pezzi di scorta per l’auto (indispensabili quando le tratte da percorrere superavano le 10 ore di macchina), del mangiare che Mahmid, il nostro autista, aveva comprato il giorno prima al grosso mercato nero e una quantità che a me sembrava eccessiva di cisterne d’acqua.
    Tutto il mio bagaglio consisteva in una valigia nera, riempita per metà di vestiti che ormai non mi andavano più. Li avevo portati per regalarne ai bambini. Non mi ero mai fidata di quelle associazioni che raccoglievano casa per casa vecchi vestiti. Così, decisi di portarli personalmente. Almeno ero certa che sarebbero arrivati.
    Lasciata Khartum alle nostre spalle, feci finalmente il mio ingresso in Africa.
    Il paesaggio era più bello di quanto potessi sperare. Le nubi avevano un colore e uno spessore così diverso che era come se le stessi vedendo per la prima volta. Erano basse, appena sopra la mia testa… sembrava quasi che potessi toccarle limitandomi ad alzare il braccio. Le montagne, che incorniciavano pittorescamente la grande vallata che circondava Khartum, avevano delle sfumature grigie e marroni e si perdevano nell’orizzonte limpido, pianeggiando verso l’apertura di un’altra vallata divisa da un profondissimo canyon. Davanti a noi, nell’assoluto nulla, si stagliò verso il cielo un enorme baobab. La circonferenza del suo tronco era di almeno quindici metri.
    Mi ritrovai a fotografare ogni cosa, anche ciò che fino a due giorni prima consideravo senza importanza. Volevo racchiudere nella mia macchina fotografica tutte le cose che non avrei ritrovato a casa mia. Volevo portare con me un pezzo dell’Africa.
    Dopo qualche ora ci inoltrammo nella savana dove non c’erano piste e attraverso le stoppe dei campi dove era già avvenuto il raccolto di dura. Non incontrammo anima viva ed io ne rimasi molto delusa. Non sapevo ancora cosa stessi cercando, ma qualcosa lo avevo già trovato.
    Nella mia ignoranza, ero convinta che la savana non fosse altro che una foresta pluviale. Ora, mi stavo rendendo conto in fretta di come l’Africa fosse magica e contraddittoria.
    Un’ora prima eravamo immersi nella savana dove padroneggiavano acacie, baobab e ficus, ora il carattere del paesaggio stava mutando. Non si vedevano più campi ma solo immense vallate arse dal sole, qualche cespuglio qua e là e raramente dei giganteschi alberi. Poi in lotananza, quasi volessero nascondersi dietro le cime di alcuni alberi di cui non conoscevo il nome, si vedevano i contorni azzurri e sfumati delle colline. E in tutto questo, c’era una calma che sembrava inghiottirmi. Ne ero quasi angosciata. A casa non avevo un attimo per me, tutta la mia giornata era scandita da orari che non si potevano spostare o ignorare, mentre qua…niente. Le ore non hanno più importanza e le giornate erano scandite solo dal movimento del sole e dalle stagioni. Non ero pronta a questo.
    Mahmid guidò fino ai piedi delle colline e lì arrestò la Land Rover.
    Ormai erano le quattro del pomeriggio e le ombre cominciavano ad allungarsi. Mi spiegò che non era prudente viaggiare di notte in Africa…non tanto per chi avremmo potuto incontrare ma per le difficoltà del tragitto.
    Distesi a terra un lenzuolo bianco, bagnai i miei vestiti per rendere il caldo più sopportabile e, dopo aver bevuto una tazza di tè mi distesi all’ombra di un baobab. Col naso all’insù, vedevo i raggi del sole attraversare i rami secchi. Ero esausta, inzuppata di sudore e ricoperta di polvere, ma terribilmente felice.
    Mi accorsi improvvisamente con commozione che stavo vivendo.
    Jhonny si distese accanto a me, mentre Mahmid restò seduto di guardia in auto imbracciando un fucile.
    “Sono così pericolosi gli indigeni?”, gli chiesi, incupita dal fucile.
    “Non sono gli indigeni dai quali dobbiamo difenderci”, mi rassicurò, “piuttosto dagli animali, soprattutto dai serpenti”.
    “Ci sono molti leoni in questa zona?”.
    Guardava davanti a sé, assolutamente tranquillo. “No, non molti. Preferiscono vivere in gruppo e in questa stagione si spostano verso sud”.
    Avvolsi il mio rullino e lo misi in borsa.
    “Hai fatto molte foto…è un buon segno. Vuol dire che l’Africa ti ha già sedotta”, commentò.
    “Il mio lavoro è una scusante. Mi sono fatta mandare fin qui per altre ragioni. Vorrei aiutare i bambini, portare qua qualcosa di mio…”.
    Lo fissai, ma lui aveva già riportato il suo sgguardo verso l’orizzonte. Ne seguii la traiettoria ma non capii cosa stesse osservando.
    “Guarda Giusy”, disse emozionato, “guarda che colori. Dì, li hai mai visti prima d’ora?”.
    Scossi la testa in segno di diniego. Non riuscivo a parlare di fronte a quel tramonto e a quell’uomo che dopo tre anni in Africa, ancora si emozionava davanti alle infinite tonalità del continente.
    “Ogni giorno vedo colori diversi. E ogni giorno mi commuovo”, parlò piano. “Guarda bene ciò che vedi. Guarda Giusy: questi sono i colori dell’anima”.

    Edited by lara.6 - 9/5/2012, 14:52
     
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  5. Pico ©
     
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    LOL! Lara... non e' che ti sposi tra un mese? :P
     
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  6. lara.6
     
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    ah ah ah.... ma va. se mi sposassi davvero avrei già postato la foto del mio vestito
     
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  7. antonella125
     
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    Complimenti Lara!!!! Anche qst secondo capitolo è molto bello! Ti faccio i complimenti "soprattutto" per la velocità, ciò fa capire che ti viene in modo semplice "scrivere" e "scrivere BENE"!
    Ancora... BRAVA!!!!!! ;)
     
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  8. romantika.70
     
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    Complimenti Lara. La lettura è scorrevolissima e ti prende subito! Brava!
     
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  9. lara.6
     
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    grazie.... appena mi ispiro di nuovo metto il terzo capitolo
     
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  10. lara.6
     
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    CAPITOLO 3

    Per chi come me era abituato al lusso e alle comodità più moderne non era facile addattarsi in una realtà così arcaica. Inizialmente ne provavo quasi disgusto…la cosa per me più insopportabile era trascorrere interminabili ore sotto il sole e poi non avere la possibilità di immergermi in una vasca traboccante di bagno schiuma. Mi sembrava che tutta la terra di quei campi si fosse infilata sotto le mie unghie -che non erano più così perfette- e tra le mie scarpe. Il caldo torrido, al quale la mia pelle non era abituata, mi aveva provocato uno strano eritema sul petto: piccole bollicine d’acqua mi incorniciavano le spalle e non facevo altro che grattarmi. Il sudore mi imperlava la fronte e mi scivolava negli occhi, facendoli lacrimare…e una voce dentro di me continuava a ripetere: “ma chi me lo ha fatto fare?”
    Ed ero in Africa da appena cinquantatre ore…ci sarei dovuta restare per sei mesi.
    Jhonny dal canto suo ero un ottimo sostegno per me. Abituato da una lunga permanenza in questo posto così primitivo, mi insegnava dei trucchi per rendere più sopportabile il caldo e per come patire meno la sete. Con la schiena retta e lo sguardo orgoglioso fisso davanti a sé mi dava una sicurezza incredibile, mi insegnava a distinguere il sesso degli uccelli che ci accompagnavano in quell’interminabile viaggio iniziato trentasei ore prima, mi raccontava dei popoli che abitavano fieri tra le colline che oramai distavano poche ore da noi, mi elencava i nomi delle piante che incrociavamo lungo il percorso, mi cantava le canzoni del posto traducendole direttamente in italiano… ma si guardava bene dal parlarmi della sua vita. Curiosa com’ero sempre stata cercavo di indagare, ma ogni volta che lo facevo lui mi zittiva dicendo: “le parole non sono niente, volano nell’aria e spariscono. Quello che invece guardi, entra nei tuoi occhi per rimanerci per sempre”. Allora io mi tappavo la bocca e guardavo attorno a me, senza nemmeno sapere cosa cercare ma trovando tuttavia qualcosa che valesse la pena di guardare.
    Ci fermammo accanto ad una “water hole”, ovvero una piccola pozzanghera d’acqua nel puro nulla dove si erano dati appuntamento alcuni springbok (l’equivalente del nostro bambi) e un paio di piccoli facoceri. Lì feci il mio primo incontro con una giraffa. Inizialmente ne fui spaventata a morte…stava a meno di una decina di metri da noi e ci guardava dai suoi sei metri d’altezza mentre ondeggiava sinuosa nella sua calma.
    Le feci un sacco di foto e tremai quando quell’incosciente di Jhonny si avvicinò alle alte zampe dell’animale per regalarmi una fotografia da copertina. La giraffa non è assolutamente una bestia pericolosa….ma ha pur sempre un istinto animale: imprevedibile e difensivo. Comunque, per lo più, è un animale vanitoso che adora farsi fotografare e molto, TROPPO curioso.
    Feci un altro determinante incontro lì, sulle rive per così dire di quel laghetto…all’orizzonte, ai piedi di una gigantesca welwitschia intravidi una figura immobile che ci osservava con degli immensi occhi bianchi.
    “Ehi Jhonny… guarda laggiù”.
    Anche Jhonny si era accorto che non eravamo più soli e alzò lo sguardo nella direzione che gli stavo indicando, restando per qualche secondo a studiare quella figura snella d’uomo che portava in se qualcosa di incomprensibile e arcano. Quando poi alzò il braccio in segno di saluto, quel ragazzo cominciò ad incamminarsi verso di noi. Aveva un’andatura fiera e decisa che mi ricordava quella dei gladiatori. Solo quando si trovò a pochi passi da me riuscii a fare luce su di lui e accorgermi che altro non era che un mio connazionale.
    “Salve”, ci salutò, togliendosi il cappello a visiera, “siete sulla strada giusta”.
    Come faceva quell’uomo a sapere dove fossimo diretti?
    Lo osservai con discrezione mentre con movimenti esperti indicava a Jhonny la direzione che avremmo dovuto percorrere per arrivare prima alle colline. Gli consigliava il percorso meno battuto, gli rammentava di fare attenzione alle provviste e di tenere accesa la radio perché in quei giorni erano stati avvistati dei leopardi. In tutto questo, per ogni istante, tenne gli occhi puntati verso i miei.
    “E tu chi sei?”, mi chiese, venendomi accanto. Jhonny si era allontanato per tirare le cinghie alla Jeep.
    “Giusy. Sono qui in Africa per un reportage sugli usi e i costumi delle tribù”.
    Mi strinse la mano. Le sue dita erano ruvide, ricoperte di tagli e piaghe.
    “Io sono Riccardo! Ad un giorno di cammino troverai quello che stai cercando”. Posizionò una mano sopra gli occhi per proteggersi dal sole e con l’altra indicò davanti a sé, verso una specie di conca tra le colline. “Vedi laggiù? Ancora non si vede ma al calare della sera, se sei fortunata, potrai scorgere del fumo nero alzarsi dal punto più in alto”.
    “Un fumo nero?”, chiesi.
    “Il fumo dei falò”.
    “Quindi laggiù c’è una tribù?”.
    Un mezzo sorriso scoprì la linea bianca dei suoi denti. “Al momento sì…. prepara la tua macchina fotografica
    “Cosa sai di quella tribù? “indago”
    Lui scoppiò a ridere gettando la testa all’indietro.
    “Perché ridi?”.
    “Zitta!”.
    Mi fece cenno di tacere col dito e chiuse gli occhi, sorridendo. Senza sapere a che scopo lo imitai e nell’immediatezza non riuscii proprio a capire cosa stesse ascoltando con tanto trasporto. Solo dopo una manciata di secondi sentii raggiungermi il suono lontano e ritmico di un tamburo, accompagnato da voci maschili che cantavano in una lingua a me sconosciuta. Restai in estasi per non so quanto tempo, assaporando quel suono come fosse una cosa buona da mangiare.
    “Avresti dovuto chiedermi cosa non so di quella tribù!”, riprese Riccardo. “Ho vissuto con loro per due anni”.
    “Quindi sai tutto di loro?”.
    “So cosa mangiano, so come si vestono, ho imparato a memoria le loro canzoni e i loro balli. Ma loro non sono questo…sono molto di più. Ed io sto facendo un cammino per scoprire veramente con chi ho vissuto questi ultimi due anni”.
    “Un cammino?”. Non ero molto certa di aver capito bene, speravo solo che non cominciasse a parlarmi come un prete che sta percorrendo la sua strada per arrivare alla fede.
    “Nahh…. Sei in Africa da troppo poco tempo per capire. Goditi il panorama e quelle cosette lì”.
    “Ehi”, mi indignai. “Non sono una ragazzetta stupida…”.
    Sollevò un sopracciglio. “Mai detta una cosa simile”.
    “Se proprio vuoi saperlo ho messo in valigia molte delle mie cose per poter far volontariato e…”.
    “Buttale!”, mi interruppe.
    “Sei matto?”. Sgranai gli occhi, presa in contropiede. “Ho con me colori per i bambini, vestiti, quaderni…”.
    “Loro non vogliono queste cose… non sanno che farsene e…”, mi strizzò un occhio, “… in quanto agli abiti, forse è bene che te lo dica: loro non li usano e criticano chi lo fa”.
    Raccolse da terra il suo cappello e fece un cenno di saluto a Jhonny.
    Mentre lo osservavo, desiderai approfondire il discorso e convincerlo a vedermi per com’ero veramente e non per come apparivo.
    “Perché non ti fermi a pranzo con noi?”, lo invitai.
    Si voltò ad osservarmi, corrugando la fronte. “Perché?”.
    Restai spiazzata. “Volevo solo essere gentile”.
    “Lo volevi essere con me o con te stessa?”.
    Alzai lo sguardo su di lui, pronta a ribattere, ma lui già se ne stava andando. Mio malgrado stavo imparando che chi viveva in Africa considerava puerili le parole… qua la sfacciataggine altro non era che franchezza. Sia Riccardo che Jhonny non amavano parlare ma preferivano ascoltare i linguaggi della savana, delle foreste e di chi vi abita. L’uomo, in questo paradiso terrestre, passava in un secondo piano, lasciando il posto agli animali, al vento, al sole e a tutto quello che l’Africa può regalare.
    Tutto quello che fino ad ora avevo imparato sui banchi di scuola e che mi avevano tramandato i miei genitori, tutte le informazioni trasmesse in tv, fatte pervenire dai telegiornali non mi aiutavano ad affrontare la prova più importante della mia vita: per la prima volta, stavo vivendo con le cose e per tutte le cose che Dio aveva pensato ci potessero bastare. E non ero preparata. Ero abituata a vivere con le cose inventate e costruite dall’uomo, avevo annusato mille profumi di Christian Dior, di Dolce e Gabbana e mi ero scordata di odorare il profumo di erba umida.
    Qua vigevano leggi completamente diverse dalle nostre. Per qualcuno potevano essere più insulse, per altri come me potevano sembrare indispensabili. Non mi permettevo di giudicarle…perché non erano né giuste né sbagliate. Erano semplicemente le leggi dell’Africa.
    E Riccardo sembrava conoscerle molto bene.
    Strizzai gli occhi verso la sua sagoma ormai lontana; avevo l’impressione che ci saremmo rivisti molto presto. Purtroppo!
     
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  11. antonella125
     
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    Bellissimo anche qst! Bravaaaaaa!!!! ;)
     
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  12. lara.6
     
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    ummm, a dir la verità quella non era stata proprio una bellissima giornata, ma sono contenta che ti piaccia come l'ho scritta. Un bacione
     
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  13. antonella125
     
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    I miei complimenti andavano al tuo modo di scrivere!
    Premesso che sono un po' rimbambita e quindi alle cose ci arrivo sempre dopo... questa esperienza l'hai vissuta veramente?
     
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  14. lara.6
     
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    è una parte del mio diario che ho trasformato in romanzo... infatti non mi chiamo Giusy :)
     
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  15. stefano…
     
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    mi sembra di averla già sentita questa storia :)
     
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26 replies since 29/3/2012, 10:34   411 views
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