IO NON HO UN SOGNO

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  1. Pico ©
     
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    laraaaaa... perche' non lo posti anche da noi? :P
     
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  2. lara.6
     
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    detto fatto
     
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  3. Pico ©
     
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    CITAZIONE (lara.6 @ 10/4/2012, 20:47) 
    detto fatto

    :****
     
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  4. stefano…
     
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    perchè non vai più avanti?
     
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  5. lara.6
     
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    CAPITOLO 4

    Una delle innumerevoli particolarità dell’Africa è che nell’arco di una giornata la temperatura parte da pochi gradi sopra lo zero per poi salire fino a quaranta gradi.
    Quando l’alba, coi suoi toni arancio, cominciò a colorare i piedi delle colline, arrivammo a destinazione.
    Mi scoprii piuttosto delusa quando Jhonny ordinò a Mahmid di arrestare la Land Rover; davanti a me solo ammassi di roccia friabile. Rocce su rocce s’innalzavano verso l’alto, l’immancabile falco volteggiava accanto al sole compiendo ampi cerchi, e poi ancora rocce. Ore ed ore, giornate intere di viaggio, per arrivare a cosa? Ad un mucchio di massi?
    “Dov’è il villaggio?”, chiesi nervosa, grattandomi accanto all’orecchio, dove una zanzara aveva appena banchettato. “Qua non c’è nessuno”.
    Jhonny scende dalla jeep con un balzo. “Non essere impaziente”.
    Strizzai gli occhi per riuscire a vedere il punto più lontano all’orizzonte ma non riuscii a scorgere nessun indigeno.
    “Non essere impaziente?”, sbottai, “Me ne sono stata buona per tutto il tempo del tragitto. Ed è stato un tragitto che ci ha impiegato ben tre giorni. Ed ora tu mi chiedi di essere paziente?”.
    Jhonny scoppiò a ridere.
    La rabbia aumentò.
    “Hai per caso un appuntamento con i Masay?”, mi prese in giro. “Vedi, Giusy, sei ancora tropo legata alle tue origini. L’Africa non ha tempo, non segue i minuti o le ore. Imparalo in fretta e vivrai meglio la tua permanenza qua”.
    “Tutte stronzate!”, esplosi. Stavo cominciando a vedere rosso per la rabbia. Mi veniva anche da piangere.
    “Vieni qua, Giusy”.
    Sollevai lo sguardo su di lui, pronta a far guerra, ma notai che aveva spalancato le braccia a mò di invito. Mi ci gettai senza neanche pensarci e, per la prima volta, da quando un aereo mi aveva sradicato dalla mia terra, mi sentii di nuovo a casa.
    A quel punto le lacrime trovarono strada facile. “Ora penserai che sono una ragazza con le lacrime in tasca. Ma io non sono così. Non so cosa mi stia prendendo”.
    “E’ la stanchezza. Ore di marcia sotto il sole in una terra che non è la tua ti hanno messo sotto stress. Ora rilassati, respira piano, goditi il mio abbraccio e svuota la mente dal tempo”.
    “Voglio vedere i Masai”, piagnucolai, “non voglio aver fatto tutto questo viaggio per niente”.
    “Per niente? Non si fa mai niente per niente”, il suo alito mi spostò i capelli dalla fronte.
    “Ecco che ricominci a fare il filosofo…”.
    I suo petto si mosse sotto una risata. “Da ogni cosa c’è da imparare. I nostri occhi sono insaziabili come lo è il nostro spirito. L’impazienza e la fretta non sono altro che degli ostacoli nello scoprire ciò che Dio ci ha permesso di godere”. Mi fece voltare verso una grotta nascosta da dei cespugli spinosi che scendevano come una cascata dalla parete rocciosa. “Guarda cosa ti stavi per perdere con la tua ossessione di arrivare!”.
    Strizzai gli occhi. “Come hai fatto a scorgerla?”. Ero sbalordita…
    “Non vorrai sul serio che mi metta di nuovo a fare il filosofo? Sai, su, andiamo a vedere se è la casa di qualcuno”.
    “Aspetta, aspetta, aspetta!”, lo acciuffai per un lembo della manica, “potrebbe esserci un leopardo”.
    “Oh no, i leopardi se ne stanno comodamente sdraiati sui rami degli alberi per dormire. Vieni…ma da adesso in poi devi restare nel più assoluto silenzio”.
    “Vai avanti tu”, lo spinsi.
    Mi lanciò un’occhiataccia. “Siamo coraggiose, eh?”.
    Imbracciò il fucile e, costeggiando un ammasso di roccia alto su per giù otto metri, forse un poco di meno, mi guidò lentamente fino all’entrata della piccola caverna. Dietro di noi ci seguiva Mahmid che sosteneva di essere l’unico in grado di poterci difendere dall’attacco di qualche belva.
    Quando mi affacciai all’antro, dovetti attendere qualche secondo prima che i miei occhi si abituassero al buio. Jhonny e Mahmid non sembrava avessero le stesse mie difficoltà perché avevano proseguito, lasciandomi da sola. Un forte odore di escrementi mi portò a sospettare che quella grotta fosse abitata. Strizzai gli occhi una manciata di volte e avanzai tastoni verso la sagoma scura di Jhonny, aggrappandomi alla fredda parete.
    E poi fu un attimo.
    Un ruggito davanti a noi rimbombò tra le pareti spoglie, alcuni sassi si mossero, cozzando l’uno contro l’altro.
    “FUORI!!!”.
    Nel panico non capii nemmeno chi era stato ad urlare il comando. Restai paralizzata qualche secondo prima di reagire, e in quel lasso di tempo, nel buio più fitto, si accesero due occhi gialli.
    Qualcosa mi spinse in avanti, sballottai verso la luce dell’esterno, raschiando la spalla contro lo spigolo di una roccia della caverna. La luce del sole mi sembrava un traguardo irraggiungibile. I passi dell’animale erano dietro di me, li percepivo a non più di qualche metro di distanza. Jhonny mi afferrò la mano e mi trascinò all’aperto, verso la jeep, poi mi lasciò andare e imbracciò il fucile.
    Sentii partire due colpi e immediatamente dopo, centinaia di massi, franarono sulla nuca dell’animale, facendo alzare da terra una nuvola bianca. Scesi dalla jeep e mi precipitai accanto a Jhonny che, nel frattempo, aveva già iniziato a scavare una galleria a mani nude. Mahmid lo aiutava. Sembravano disperati.
    “Oh mio Dio cosa ho fatto!”, urlò Jhonny. “Scava anche tu, Giusy. Aiutaci!”.
    Sollevai una pietra e mi fermai. “Perché devo scavare?”.
    Non sollevò nemmeno lo sguardo. “C’è una iena là sotto se te ne fossi dimenticata”.
    “Vuoi salvare quella iena? Ma sei impazzito? Quella ha appena tentato di ucciderci e tu…”.
    A quel punto scattò verso di me, acciuffandomi per un polso con tanta forza da indolenzirlo. Poco prima di parlare mi rivolse uno sguardo che mi fece sentire l’ultima delle donne.
    “Quell’ animale ha reagito così perché fa parte del suo istinto. Piantala di ragionare con la testa della Giusy di ieri… e se dovesse spezzarsi una tua unghia perfetta ti garantisco che ti ricrescerà”.
    Profondamente umiliata dalle sue parole, sentendomi tuttavia nel profondo d’accordo con lui e commossa dalla sua incommensurabile bontà, ripresi a scavare, puntando i massi più grossi. Sotto le macerie non si avvertiva alcun rumore. La savana era immobile, silenziosa, quasi curiosa di vedere quanto ci avremmo messo a capire che non c’era più niente che potessimo fare per salvare quella vita. La stanchezza alla fine ebbe il sopravvento e sia io che Jhonny ci fermammo, lasciandoci cadere a pancia in su, divisi dal corpo martoriato e spento della iena, in attesa che il respiro tornasse il più regolare possibile.
    “Sai Giusy…”, attaccò dopo una manciata di minuti, “…forse per una volta, una sola volta, avrei dovuto avere la tua impazienza”.

    Quella notte le stelle sembravano così vicine alla mia testa che mi sembrava di raggiungerle stendendo semplicemente una mano verso il cielo.
    Ci eravamo accampati ai piedi delle colline e, dopo aver cenato, ci eravamo abbandonati alla spossatezza.
    Sentivo dentro di me un’enorme paura, ma non sapevo di cosa.
    Giocherellavo con un legnetto sottile e lungo…e stavo ben attenta che il fuoco non si spegnesse. Era molto raro che gli animali si avvicinassero finché ardeva la legna ma dopo lo spavento con la iena avevamo organizzato tre turni per tenere la situazione sotto controllo.
    Accovacciata a terra, in compagnia del silenzio della savana e della mia malinconia, tenevo a portata d’occhio il fucile che avevo sistemato sopra la mia coperta e non osavo nemmeno toccarlo. Non avevo mai usato un’arma, ma Jhonny mi aveva spiegato velocemente come farla funzionare. Era già tanto se riuscivo a sollevarlo quel fucile.
    “Sei sveglia?”, mi chiese Jhonny, uscendo dal suo sacco a pelo.
    “Il mio turno non è finito”.
    Lo guardai avvicinarsi a me con gli occhi pieni di disperazione e senza rendermene conto scoppiai in lacrime trasmettendogli il mio pessimo stato d’animo. Anche lui mi sembrava terribilmente sconfortato, ma forse erano semplicemente i miei occhi che non riuscivano a vedere al di là della mia stessa desolazione.
    In questo momento per me niente aveva più un suo significato arcaico, ma semplicemente un Mio significato. Mi sentito come una nota storta in una sinfonia di Beethoven.
    Avrei potuto evitare tutta questa sofferenza, avrei potuto almeno schivarla. Avrei potuto chiudere gli occhi per non vedere…esattamente come si fa quando si vede alla tv un film horror. Come un qualunque spettatore, avevo cominciato a vedere il mio film piena di spavalderia, e alla prima scena paurosa avevo cercato di chiudere gli occhi. Ma nella vita reale, c’è sempre qualcosa o qualcuno che ti impedisce di estraniarti da immagini talmente brutali da spezzarti in due il cuore.
    Dai miei occhi fuoriuscivano continue lacrime ed erano talmente tante da sembrare che alle mie si fossero unite quelle della iena. Le sue lacrime calde…le lacrime di un essere vivente consapevole di appartenere al Mondo…ma consapevole pure che quel Mondo non gli appartiene più.
    Jhonny afferrò la mia mano e se la portò al petto.
    “Li percepisci i battiti del mio cuore?”, bisbigliò.
    Annuii scoppiando in un singhiozzo.
    “Sto dividendo con te il mio dolore…”, concluse.
    Gli gettai le braccia al collo.
    “Non avevo mai pensato alla morte in questi termini. Non credevo che avrei mai potuto commuovermi per una iena. Mi sento un’idiota!”.
    Sospirò e mi sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Ogni essere vivente merita una lacrima”.
     
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  6. stefano…
     
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    mi vengono i brividi ogni volta che lo racconti. Brava, hai scritto molto bene.
     
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  7. lara.6
     
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    CAPITOLO 5


    Non ho mai creduto a Dio come in queste notti passate nella savana.
    Ho scoperto un nuovo modo di pregare e di rivolgermi a Lui.
    Un modo che mi ha insegnato Jhonny e che mi ha aperto nuovi orizzonti. Come tutti, pensavo che uno dei tanti scopi dell’uomo fosse quello di scoprire da dove veniamo e dove stiamo andando. Ma ora mi rendo conto del perché ancora non ci è permesso di scoprire tutto questo. Dobbiamo prima di ogni cosa scoprire fino in fondo dove siamo…cosa vogliamo e cos’è la vita per noi stessi. Cosa importa sapere dove andremo e da dove abbiamo cominciato se non sappiamo niente di quello che stiamo facendo? E’ così breve la nostra vita…se dovessimo raccontarla a qualcuno, penso ci basterebbe una serata davanti ad un boccale di birra. E in ogni istante le stiamo dicendo addio…chi in un modo chi in un altro.
    Dal canto mio, sarò pronta a dirle addio solo quando avrò raggiunto almeno uno dei tanti scopi che mi sono prefissata durante queste interminabili nottate rischiarate dal fuoco dei falò.
    Natale si sta avvicinando, ma quest’anno non vedrò la neve. Qua la temperatura raggiunge picchi di cinquanta gradi durante le ore di punta e, anche se al calare della sera mi ritrovo a tremare sotto il mio sacco a pelo, il clima non è esattamente uguale a quello a cui ero abituata nella mia città.
    Penso spesso ai miei genitori. Li immagino seduti accanto al caminetto del soggiorno a pensare a che fine ho fatto. Non sono riuscita ancora a mettermi in contatto con loro, ma al ritorno dal villaggio, Jonny mi ha assicurato che potrò certamente fargli una telefonata.
    Penso spesso anche ad Andrew e quando lo faccio, una piccola fitta d’ansia mi attanaglia lo stomaco. L’idea di sposarmi con lui ogni tanto ritorna a bussare ma cerco con tutte le mie forze di cacciare questo ricordo ormai diventato talmente remoto che faccio fatica a credere di aver gettato all’aria tutti i miei progetti con lui.
    Quando sono certa che Jonny si è addormentato resto ad osservarlo, alle volte anche per un’ora intera, e cerco di interpretare la sua vita spesa per gli altri. Ringrazio Dio per avermi dato la possibilità di conoscere una parte del suo Mondo…ringrazio e imparo ad amare il Dio che ho incontrato qua, e mi accorgo pian piano di avere un sogno da realizzare.
    Mi accorgo di non rimpiangere quasi niente del mio passato e di apprezzare la nuova me che è sbocciata come una rosa in mezzo al deserto. Ed è così che mi sento! Mi vedo così differente da tutto ciò che mi circonda, eppure sono totalmente integrata con questo mondo.
    Improvvisamente Jonny si sveglia sotto il mio sguardo vigile e attento e mi sorride.
    “Immagino di essere molto interessante mentre dormo”, si stiracchiò, sbirciandomi da sotto le ciglia.
    “Non tu…la tua vita”.
    “Come mai non dormi? Sei emozionata per domani?”.
    “Domani finalmente incontreremo una tribù…poco fa sentivo il suono di un tamburo e mi è venuta voglia di ballare”, scoppiai a ridere, nervosa. “Che cosa sciocca”.
    “Non è affatto sciocca…”. Si alzò e mi afferrò la mano per farmi ruotare su me stessa. La luna ruotò veloce sopra la mia testa.
    Quando mi fermai, i suoi occhi tornarono ad essere il mio punto fermo.
    “Stiamo ballando nella savana”, risi. “Non lo voglio fare. E’ imbarazzante ballare con te”.
    “Imparerai che si riesce a comunicare meglio attraverso un ballo o una musica anziché mediante tante parole”.
    Sollevai lo sguardo verso il cielo, unico testimone di ciò che stava accadendo.
    “Chissà se Dio ci sta guardando?”, chiesi tra me e me.
    “Come sei diversa!”
    Corrugai la fronte, senza capire.
    “Sei più donna rispetto a quando sei arrivata qua”, si spiegò meglio. “Forse hai perso un po’ della tua femminilità. Non hai più le unghie curate e la faccia impiastricciata…ma sei donna!”.
    Tornai a fissare il cielo. Io e Jhonny stavamo ancora l’uno nelle braccia dell’altro, ma non stavamo più ballando.
    “Sai Jonny…ho pensato a una cosa prima, mentre ti osservavo dormire”.
    “A cosa?”.
    “Ho deciso che quest’ anno a Dio, per il suo compleanno, gli regalerò un sorriso”.
     
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  8. antonella125
     
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    Bellissimi qsti due capitoli...brava! ;)
    Soprattutto l'ultima frase...magnifica!!!!
     
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  9. lara.6
     
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    CAPITOLO 6

    Il giorno dopo, o forse quello dopo ancora, trovammo lungo la strada un mercato dove acquistammo patate e cipolle. Avevamo finito quasi tutto e l’acqua era introvabile. Non mi lavavo da diversi giorni ma Jhonny mi proibì categoricamente di usare l’acqua della damigiana. Grazie all’aiuto di Mahmid riuscimmo a trovare informazioni dettagliate su come raggiungere Lodwar. A quanto pare avevamo sbagliato strada e ci voleva un altro intero giorno di viaggio. Mentre gli uomini facevano rifornimento di benzina mi allontanai e scoppiai a piangere. Maledicevo me stessa per essermi imbarcata in una situazione simile. Ero completamente esausta, avevo fame, ero sporca e mi facevano male tutti i muscoli per i sobbalzi della jeep. Volevo la mamma. La volevo accanto a me.
    Il giorno dopo partimmo all’alba; la bussola indicava che eravamo diretti verso ovest, puntando dritto per la savana, dove sparivano le piste. Per almeno cinque ore non incontrammo nessuno. Passammo attraverso le stoppie dei campi dove era già stata fatta la raccolta del dura, poi di colpo il paesaggio cominciò a mutare. I campi vennero sostituiti da rari cespugli secchi e ogni tanto da una solitaria Welwitschia. Passai il tempo a fotografare ogni particolare ma non bastò a tirarmi su il morale.
    Poi di colpo sobbalzai.
    A poche centinaia di metri da noi, quasi invisibili nell’orizzonte, intravidi un gruppo di piccole capanne in mezzo alle rocce. Feci cenno a Jhonny e ci fermammo all’ombra di un grande albero per studiare quale strada percorrere per arrivare ai piedi delle colline. Il caldo era così intenso che era quasi impossibile non stare all’ombra ma io tolsi dallo zaino le mie macchine fotografiche perché volevo riprendere il paesaggio. Lo scenario era stupendo. Il terreno era punteggiato da piccoli cespugli di agrifoglio di un verde così intenso che contrastava con il giallo dell’erba bruciata e il rosso ocra del terreno. Una strana, quasi innaturale calma sembrò inghiottirci.
    Mahmid mi spiegò che era meglio proseguire a piedi perciò, con l’aiuto di Jhonny, scaricai tutti i bagagli e mi incamminai verso il pendio della collina. Dopo esserci arrampicati sopra lastroni di roccia, vedemmo un vecchio, proprio davanti a noi.
    Da lontano era impossibile darvi un’età; se ne stava appollaiato contro il tronco di un albero, a torso nudo, un tamburo tra le gambe magre gli nascondeva la striscia di pelle che fungeva da pantalone. La pianta dei piedi era bianchissima rispetto al resto del corpo. L’iride degli occhi spiccava affascinante sotto le ciglia folte e scure. Man mano che mi avvicinavo a lui, captavo particolari che a prima vista mi erano sfuggiti: la pelle era secca, quasi avvizzita, tre solchi gli attraversavano la fronte incattivendone l’espressione, le labbra si muovevano piano come in una muta preghiera, la testa ciondolava avanti e indietro a ritmo delle parole appena sussurrate. Lo sguardo era perso nel vuoto eppure lo sentivo bruciarmi addosso. Un recinto alle sue spalle segnava l’ingresso del villaggio, dietro di esso spuntavano i tetti in paglia di alcune capanne. Sembrava essere un villaggio deserto.
    “Non guardarlo negli occhi”, mi sussurrò Jhonny.
    “Perché no? E’ maleducazione?”
    “Potrebbero ucciderti se lo facessi”.
    “Cosa?”, esclamai.
    “Una donna non guarda un uomo negli occhi. Mai”.
    “Cosa?”, sbottai.
    “Lascia parlare Mahmid, intesi?”.
    In quel momento mi chiesi come avrei fatto a fotografare quell’uomo se non potevo guardarlo. Mi indignai e mi nascosi dietro la schiena di Jhonny. Quando raggiungemmo il vecchio non avevo nemmeno il coraggio di sollevare lo sguardo da terra. Tenevo gli occhi puntati su un sasso pregando Dio di non guardare in alto nemmeno per sbaglio. Ero quasi tentata di nascondermi il volto tra le mani.
    Sentii Jhonny parlare in una strana lingua col vecchio, era Swahili come mi spiegò più tardi, una lingua incomprensibile alle mie orecchie. All’inizio pensai che stessero litigando, poi intuii che tra di loro stava avvenendo una vera e propria trattativa. Vidi muoversi qualcosa a lato del mio campo visivo e con la coda dell’occhio mi azzardai a sbirciare verso la punta delle scarpe di Jhonny. Mi accorsi subito che non era più al mio fianco. Dov’era finito? Come facevo a muovermi se non potevo guardare? Mi tornò la voglia di piangere.
    Un attimo dopo la contrattazione terminò. Jhonny avvicinò le labbra al mio orecchio.
    “Questo uomo è il Mak, il capo del villaggio. L’unico che può autorizzarci ad entrare. Dobbiamo offrirgli tutto quello che abbiamo con noi altrimenti non ci darà la sua ospitalità”.
    “Anche tutta l’acqua?”, mi allarmai subito.
    “C’è un pozzo qua vicino, fossi in te non mi preoccuperei tanto. E smettila di guardare a terra, nessuno vuole ucciderti. Però non ti allontanare da me”.
    In realtà furono gli altri ad allontanarsi da me. Bambini mi danzavano attorno senza però trovare il coraggio di avvicinarsi troppo. Le ragazze, quasi tutte nude, continuavano ad indicare i miei jeans. Una di loro si avvicinò piano, un passo per volta, lo sguardo sospettoso in cerca del mio. Poi sorrise in un modo che non avevo mai visto fare a nessuno.
    “yataathiri”, disse.
    “E’ il loro saluto”, mi tradusse Jhonny, al volo.
    Feci “ciao” con la mano, totalmente imbarazzata. Come potevo comunicare con lei? Mi ricordai che nello zaino avevo una bottiglia d’acqua comprata all’ultimo mercato e pensai che avrei senz’altro rotto il ghiaccio se gliene avessi offerta un pò. Appena tolsi la bottiglia dalla tasca esterna, una nuvola di bambini sui cinque anni mi investì. Uno di loro mi colpì subito: era bellissimo. Completamente nudo e con due treccie che gli cadevano sulla fronte. Attorno al collo aveva una spessa collana di corno che continuavaa a tormentare. Quando fu il suo turno di bere dalla bottiglia mi sorrise, come volesse chiedermi il permesso, e il quel momento sentii con lui un legame che sconfinava da tutto ciò che fino a quel giorno avevo mai provato.
    Si portò la bottiglia alla bocca ma al primo sorso si fermò e spalancò gli occhi.
    “No agua! No agua!”, urlò tra le risate.
    “Sì, è acqua. Ha le bolle ma è acqua”.
    “No agua.... no... no”, urlò ancora, chiamando a raccolta tutti i bambini.
    Ognuno di loro si passò la bottiglia, da una mano all’altra mano, sotto il mio sguardo allucinato. Potevano davvero sorprendersi per dell’acqua frizzante?
     
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  10. Simona_85
     
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    Su su il finale forza :bleee: :bleee: :bleee:
     
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  11. lara.6
     
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    CAPITOLO 7

    Quella notte non ci ospitarono. E nemmeno quella dopo.
    Eravamo rimasti senza acqua e cibo, ai piedi di una collina inospitale ed a più di un giorno di viaggio dal centro più vicino. Dovevamo trovare una soluzione ed io non sapevo nemmeno da che parte cominciare a cercarla. Mi affidavo completamente a Jhonny, come una bambina si affida al proprio padre, e non mi piaceva affatto. La sensazione di impotenza mi faceva sentire fuori posto, inetta, e mi frustrava il fatto di dipendere da un uomo in tutto e per tutto. Ero forse una zavorra? No, non lo ero, ma ero obbligata a comportarmi come tale.
    Quel giorno ero furibonda e in più avevo il ciclo. Il caldo aumentava il mal di testa e il sangue, e sapevo che se non mangiavo o bevevo qualcosa rischiavo di svenire. Le pulci mi tormentavano le caviglie ed avevo seriamente paura che potesse venirmi la malaria perchè avevo dimenticato di fare il richiamo della profilassi. Ogni tanto mi saliva la temperatura e allora mi decisi ad interrogare Mahmid. Il solo pensiero di essere malata in una terra dove la medicina era un lusso mi terrorizzava, tuttavia le sue rassicurazioni mi fecero ben sperare.
    “Devi stare tranquilla. Non hai convulsioni e la febbre non è alta. Qualunque cosa sia non è malaria”, disse.
    Verso mezzogiorno Jhonny e Mahmid decisero di andare a trattare con i nostri nuovi “vicini”. La mia presenza non era indispensabile perché non comprendevo lo swahili perciò chiesi il permesso di andare al pozzo più vicino. Mi fu concesso a patto che mi facessi accompagnare da una ragazza del villaggio (Dada) che era incinta di sette mesi e parlava qualche parola in inglese perché suo padre, quando era piccola (ora aveva 24 anni), la portava sempre a Lodwar. Per riuscire a comprenderci eravamo costrette a ripetere le stesse parole anche una decina di volte. Gesticolando con le mani riuscivamo a condire le frasi con un po’ di significato ma non era facile tradurre le nostre menti e trasformare in parole quello che provavamo.
    Dada era particolarmente interessata ai miei capelli: “Colore non vero… non vero” – continuava a dire. Mi strappò un minuscola ciocca di capelli, l’avvicinò al terreno color ocra e mi ribattezzò come “msichana ardhi” - la donna che viene dalla terra. Probabilmente non aveva mai visto una donna con i capelli rossi...
    Io invece ero assolutamente ipnotizzata dai disegni con cui si era adornata il viso. Delle strisce rosse le circondavano gli occhi, scendendo lungo la gola e allargandosi poi sui seni. Una collana di osso le cingeva il collo, trasportando piccoli ciondoli: uno per ogni figlio che aveva avuto. Aveva dei disegni anche sulle gambe che sparivano sotto un panno scuro che portava a mò di mutande. Mi spiegò che solo le donne in attesa si coprivano là sotto, per proteggere il nascituro. Nella sua ingenuità mi chiese quanti figli avessi perché ero tutta coperta.
    Camminava davanti a me, volando sulle pietre e schivando lo sterco degli animali: sembrava un folletto. Io sembravo un’oca che stava affogando nel fango.
    Ogni tanto si fermava ad aspettarmi, rideva per qualcosa che non capivo, saltellava di fronte a me, mi abbassava una spallina e sbirciava sotto il mio reggiseno. Sembrava non riuscire a comprendere come potessi restare tanto vestita. Diceva che se mai un giorno avessi avuto un bambino sarebbe morto nella mia pancia soffocato dal caldo … o almeno, questo fu quello che a fatica compresi.
    Dopo un’ora di cammino arrivammo ad un pozzo dal quale si servivano diversi villaggi.
    Il pozzo era un luogo importante, quasi sacro in una terra dove l’acqua è praticamente inesistente. Per avvicinarci, Dada mi spiegò che dovevamo toglierci le scarpe ma io non volevo farlo perché vicino ai cespugli avevo scorto alcuni serpenti attorcigliati e mimetizzati tra i colori dell’erba bruciata. Mi avvicinai pian piano, mossa dalla sete, cercando di non calpestare le ranocchie e alcuni ragni simili a dei grilli il cui corpo era grande quanto il palmo della mia mano. Jhonny mi aveva detto che potevano saltare fino a mezzo metro di altezza e ne ero terrorizzata. I bambini invece li usavano come animaletti da compagnia e li infastidivano con dei legnetti. L’unica cosa di questo insetto che mi rassicurava era la sua lentezza; il corpo era talmente grande rispetto alla struttura delle zampe da ostacolarne le movenze.
    Il pozzo era rasoterra, contornato da cemento e inciso da un nome che ormai non si riusciva più a leggere. Mi dissero di non sporgermi troppo perché era profondo 80 metri ed io me ne restai alla larga perché la testa aveva ripreso a girare. Sentivo la temperatura corporea salire e trasformarsi in sudore. Non c’era nemmeno un albero sotto cui potermi nascondere perciò mi tolsi la maglia, la inzuppai d’acqua e me la ficcai in testa. La nausea svanì all’istante per poi ritornare non appena ingurgitai l’acqua del pozzo. Era calda e salmastra e doveva contenere ogni sorta di germi e di virus. Decisi di non berne più fino a quando non ne avessi parlato con Jhonny.
    Nel viaggio di ritorno incontrammo un bel po’ di animali e ringraziai il cielo di essermi portata la macchina fotografica. Queste continue distrazioni resero la camminata più tollerabile e, quando tornarono la sete e la stanchezza, Dada mi diete un’erba da masticare. Notai solo allora che anche le altre donne ne avevano la bocca talmente piena che le guance si erano deformate in gigantesche palle. Ruminavano, sputacchiavano e, zac… dentro altre foglie. Provai ad imitarle. All’inizio il sapore era piuttosto strano ma poi ci si faceva l’abitudine. Più foglie mi mettevo in bocca, più saliva producevo. Probabilmente dovevano essere ricche di vitamine o quelle robe lì perché dopo un po’ smisi di sentire fatica. Arrivate alle porte del villaggio mi venne incontro Jhonny, l’espressione talmente severa che per un momento temetti fosse accaduto qualcosa di grave. Mi si avvicinò con due enormi falcate e mi imprigionò il mento nella sua mano, costringendomi a spalancare la bocca. Provai a parlare ma non ci riuscii… sbavavo e basta. Dovevo essere raccapricciante.
    “Sputa quello che hai in bocca, cazzo!”, ruggì.
    Lasciai cadere la palla di foglie, la saliva mi colò tra i seni. Mi si riempirono gli occhi di lacrime e non feci nemmeno lo sforzo di trattenerle.
    “E’ droga, lo capisci? Non azzardarti più a masticarla”.
    “Ma me l’ha data Dada e anche le altre ne…”. Il suo sguardo mi tappò la bocca. Era così severo che non volli nemmeno concludere la frase.
    Sgattaiolai lontano da lui, verso Dada.
    “Torna qua, subito”, mi sgridò.
    Mi voltai un momento, col broncio, e scappai via, dentro il villaggio, con la sensazione che qualcosa dentro di lui fosse mutato.
    Sorpassata l’alta palizzata di canne che recintava il campo mi ritrovai catapultata in un mondo completamente incomprensibile e arcaico. Alcuni uomini stavano trasportando tronchi d’albero mentre le donne lavoravano con destrezza delle fascine di paglia e raccoglievano escrementi di animali essiccati dal sole. Mi spiegarono che stavano costruendo una casa, ma non intuii subito che quella casa sarebbe stata mia. Nel frattempo scavai una fossa di due metri dove mettere al riparo le pellicole e il materiale fotografico che richiedeva protezione dal caldo. Poco lontano da me, alle mie spalle, di tanto in tanto una giraffa allungava il collo per curiosare ciò che stavamo facendo. Davanti a me invece, i bambini mi infilavano le mani nelle tasche e urlavano “bon bon”, nella speranza che avessi dei dolci nascosti. Questo, mi spiegarono, era l’influsso del turismo arrivato fino a lì. Durante i miei lunghi mesi di permanenza per fortuna non incontrai nessun turista; quel popolo voleva restare immutato ed estraniarsi dal mondo occidentale e moderno, e noi bianchi rischiavamo di distruggere questo loro sogno spinti dall’egocentrica e arrogante convinzione che il nostro modo di vivere fosse migliore del loro.
    A me, mentre quella sera giacevo sulla stola e osservavo le prime stelle luccicare attraverso il frondoso baldacchino di rami di “casa mia”, quel loro modo di vivere pareva perfetto. Per la prima volta in vita mia, non sapevo se il giorno dopo sarebbe stato un lunedì o un martedì. Il tempo non aveva più importanza. Non c’erano più orari, impegni, scadenze o ritardi. C’era la vita e basta. Per la prima volta c’ero solo io. Completamente io! Era tutto perfetto.

    Mi risvegliai bruciante di febbre e con un'atroce fitta nel mezzo del torace. Provai a voltare la testa in cerca della torcia, cercando tastoni tra le taniche vuote dell’acqua ma intercettai solo il braccio di Jhonny.
    “Che cosa c’è?”, bofonchiò.
    “Non sento più le gambe, mi gira la testa e mi sento debolissima”.
    Crollai all’indietro, puntando lo sguardo verso la luna sopra le nostre teste. In lontananza sentii l’ululato di un coyote che si mescolò al rullo dei tamburi del villaggio e sentii piano piano spegnersi tutti i sensi.
    L'annebbiamento e la nausea provocati dalla febbre durarono tutto il giorno e anche quello successivo. Quando poi cominciai a sanguinare dal naso, Jhonny iniziò a preoccuparsi seriamente e decise di trasportarmi a Lodwar. Sentivo come se qualche forza superiore a me mi volesse strappare da quel mondo per rigettarmi dentro al mio. In qualche modo riuscii a convincerlo ad aspettare qualche giorno e mi lasciai curare da un tale ce si faceva chiamare “Benin”. Era una specie di stregone in grado di catturare l’ombra di un passante e rinchiuderla in un vaso e a quanto pareva aveva catturato l’ombra di 5 medici che avrebbero saputo come guarirmi. Quando me lo spiegarono scoppiai in lacrime e capii che se volevo davvero guarire da qualunque cosa avessi, dovevo far forza sulle gambe, alzarmi in piedi e non fermarmi più. Ci riuscii dopo una settimana di tentativi.
    Quando tornai a stare bene mi spostarono di capanna e andai a vivere in quella di Dada, condividendo lo spazio con suo marito e i suoi sei figli. Essendo ormai prossima al parto aveva bisogno di qualcuno che l’aiutasse con i bambini durante la notte, perciò mi offrii come volontaria senza pensarci una volta di troppo. La sua capanna era più piccola della mia e non aveva la porta, al centro fumava sempre un braciere dove veniva preparato il tè e l’ugali, una sorta di polenta di mais che se si lasciava coperta per qualche giorno poteva sostituire il pane. L’aria era irrespirabile e il fumo mi faceva lacrimare gli occhi ma almeno teneva lontani gli insetti. Mi venne assegnato l’angolo migliore e vi lasciai cadere tutte le mie cose. Compresi più tardi che avrei dormito accanto ai sei bambini mentre moglie e marito, per motivi di intimità, avrebbero occupato la parete opposta… ovvero a ben mezzo metro da me. Avevo già visto un uomo nudo ovviamente, ma mai quello di un’altra donna. Era il marito di Dada dannazione! Ed io, non potendolo guardare negli occhi, ero automaticamente obbligata a spostare lo sguardo verso il basso rendendo la situazione ancora più imbarazzante. Imbarazzante solo per me ovviamente, dato che per loro la nudità era un fattore ordinario. Condividere la tenda con quella famiglia si prospettava più difficile di quello che avevo inizialmente pensato. Non potevo mangiare con un uomo nudo che camminava avanti e indietro davanti al mio naso, non potevo sedere accanto a lui senza arrossire, non potevo dormire con lui che… che faceva… che…
    Comunque….
    Quella notte, la prima che passai con loro, non resistetti più di tre minuti. Al primo ansimo arraffai la mia torcia (non mi muovevo mai senza per paura di calpestare qualche insetto enorme) e sgattaiolai fuori. Trovai Jhonny seduto su un masso, intento a conversare col capo villaggio. Quando si accorse di me, si congedò da questi e mi venne incontro consegnandomi un piccolo fischietto.
    “Alcuni elefanti stanno bloccando le uscite del villaggio perciò non ti allontanare troppo, intesi? Usa il fischietto se ti trovi in difficoltà”.
    Annuii, puntai il fascio di luce su un masso e mi accovacciai, stringendomi le ginocchia al petto per proteggermi dal freddo. Stava per iniziare la stagione delle piogge e l’aria era satura di umidità.
    “Stai bene?”, mi chiese.
    “Certo”.
    “Non lo dici solo perché non vuoi andartene da qui?”.
    Gli sorrisi. “Anche per questo”. E poi tornai subito seria. “Ho perso tutto per inseguire un sogno che nemmeno sapevo di avere ed ora non sarà un po’ di febbre a fermarmi”.
    Mi osservò a lungo, la mente lontana chilometri. Infine sospirò e si lasciò cadere accanto a me.
    “Ti facevo più debole”.
    “Io sono debole”.
    Si lasciò sfuggire un sorrisetto: “Sì, è vero, lo sei. Ma non quanto pensavo. La prima volta che ti vidi, nel momento esatto che ti guardai, pensai che non avresti resistito più di una settimana. E invece ora guardati! Non sei più la ragazzina snob e ricca che eri solo qualche tempo fa”.
    Arrossii. “Mi sento diversa in effetti…”.
    “Ora sei molto bella”. Si piegò in avanti per sbirciarmi in volto. “Ma sei anche triste”.
    “Sì, un po’”.
    “A cosa pensi?”.
    “Penso ad Alessio”.
    “Ci pensi spesso?”.
    “No, non spesso. Però ogni tanto mi ricordo di lui e qualcosa dentro di me riprende a far male”.
    “Quello è dovuto dai sensi di colpa”.
    Scrollai la testa. “Non ho la più pallida idea di che giorno sia oggi, ma secondo i miei calcoli manca una settimana dal giorno in cui ci saremmo dovuti sposare”.
    “E questo ti fa star male”, commentò. “E’ per questo che non riesci a dormire?”.
    Scoppiai a ridere e lui sussultò, preso in contropiede. La torcia rotolò sull’erba e qualcosa frusciò accanto noi, in fuga dal fascio di luce.
    “Non riesco a dormire per via di Dada e suo marito”, riuscii a spiegare tra una risata e l’altra.
    Mi diede una gomitata. “Stanno forse facendo l’amore?”.
    Annuii piano, senza più nessuna voglia di ridere.
    “Ti intimidisce parlare dell’amore?”, chiese, arrogante.
    “Sì”.
    “Con tutti o solo con me?”.
    “Con tutti… con te un po’ di più”.
    “Perché?”.
    Le mani cominciarono a sudarmi per l’imbarazzo. “Perché sei un maschio”.
    “E quindi?”.
    Cercai di allontanarmi senza darlo a vedere. “E quindi credo che Dada e suo marito abbiano finito”.
    “Non cambiare argomento”, mi sgridò, compensando la distanza.
    “L’argomento non mi piace, quindi è chiuso”.
    “Lo sarà solo dopo che ti avrò baciata”.
    Scrollai la testa, piano, e raccolsi la mia torcia.
    “No, no lo farai”.
    “Perché?”.
    “Perché se io dovessi ricambiare non sarebbe per amore ma solo per gratitudine. Mi hai insegnato a vivere, e di questo te ne sarò sempre grata, almeno fino a quando tu non mi obbligherai a fingere di provare qualcosa che non provo”.
    In meno di mezzo secondo il suo tono cambiò, facendosi severo, quasi maleducato. “Vattene nella tua casa”.
    Mossi un passo, poi un altro, sempre più veloce, ed il passo divenne una corsa. Sapevo che non sarei mai riuscita a ricordare la sua espressione, ma sapevo anche che non avrei mai dimenticato le sue parole.
     
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